HomeNotizieCRONACAAccoltella la compagna, le ‘ragioni’ dell’amore che uccide

Accoltella la compagna, le ‘ragioni’ dell’amore che uccide

L’intervento della dottoressa Francesca Capozza, psicologa criminologa psicoterapeuta di Isernia, sul recente caso della lite violenta tra coniugi che stava per culminare in tragedia. L’episodio è accaduto a Termoli


TERMOLI. La cronaca ci parla ogni giorno di storie personali e di coppia sfigurate dalla violenza sino agli epiloghi più tragici. L’ultimo caso di violenza in Molise è avvenuto a Termoli. Ma come è possibile arrivare a fare del male alla persona che si dice di amare? 

E’ possibile individuare l’esistenza di 2 fattori coinvolti in tale fenomeno: il tipo di legame di attaccamento dell’individuo con il proprio genitore, che informa il tipo di relazione che si costruirà in seguito con un partner, e il sistema culturale maschilista/patriarcale vigente in ambito familiare.

La forma che prende un legame sentimentale, le distorsioni d’amore, la scelta del partner sono influenzati dalle esperienze specifiche che ognuno ha avuto da bambino con le proprie figure di riferimento: il rapporto madre-bambino è il prototipo del legame di coppia. L’amore di coppia può essere considerato un processo di attaccamento, simile a quello madre-bambino, alimentato dal bisogno di protezione e la propensione a prendersi cura dell’altro. Il tipo di attaccamento sperimentato con la figura di riferimento dà forma al modello di relazione che l’individuo da adulto instaurerà nei legami affettivi. Esistono molte maniere di sentire ed esprimere l’attaccamento ad una persona specifica, anche modi contorti, complicati, che possono creare disagio e dolore nel partner anziché felicità.

Alcune modalità rimandano infatti più all’odio che all’amore. Otello assale Desdemona con terribili scoppi d’ira. Basta poco a provocare la sua rabbia: uno sguardo rivolto altrove, un ritardo, la sparizione di un regalo. Quando si sente giù, in ansia per qualsiasi motivo o ha qualche sospetto della infedeltà di Desdemona, non riesce a sentirsi confortato dalle parole e dagli abbracci della stessa. La perseguita perché vorrebbe stare con lei in ogni momento e la costringe a cambiare continuamente i suoi piani e a non fare niente che lui non voglia.

È il tipo di legame esperito tra la figura di riferimento e il bambino che spiega i diversi modi di “amare”. Il 75% della popolazione tende a ritrovarsi in legami molto simili a quelli in cui era coinvolto con la propria madre. La consapevolezza del perché si è così tanto infelici in una relazione, la conoscenza dei meccanismi che hanno portato a quel tipo di scelta e dei motivi che rendono così difficile romperla sono di grande aiuto a recuperare un modo di amare ed essere amati che non sia doloroso e distruttivo. Le previsioni sulle reazioni della madre vengono generalizzate ed estese agli altri, soprattutto alle persone con cui instaurerà relazioni affettive. Ecco perché un individuo ha la tendenza a ricercare un partner che si allinei alle medesime caratteristiche personali e relazionali della figura di accudimento sperimentata. Gli individui cercano attivamente e selezionano, inconsapevolmente, persone, situazioni e relazioni che corrispondano alle loro attese e che confermino le loro opinioni su se stessi e sugli altri. Es se una persona non si sente degna di essere amata e non ha fiducia negli altri, selezionerà come partner proprio chi può confermare le sue aspettative e il modello interiore che ha già di se stessa: sceglierà proprio quelle persone che le dimostreranno che non può ottenere tutto l’affetto e l’attenzione di cui ha bisogno. Questo è quello che accade a chi si rende conto di fare “sempre scelte sbagliate” in amore.

Attaccamenti disfunzionali conducono alla creazione di legami di coppia basati su fusionalità e sulla relazione dominante/dominato. Il rapporto assume un significato totalizzante basato su fusione/confusione: l’altro è parte della vita e dell’identità stessa del soggetto, i confini del sé si stemperano in quelli dell’altro, non c’è vita propria in assenza dell’altro, non è possibile alcuna autonomia al di fuori del rapporto.

Il secondo fattore coinvolto nel fenomeno è rappresentato dal ruolo della cultura patriarcale e dalla figura del padre. Alla base del comportamento violento nei confronti delle donne non c’è sempre e necessariamente una patologia psichiatrica, ma semplicemente una distorta visione delle relazioni tra i generi tramandata culturalmente, secondo cui appare “normale” che l’uomo utilizzi la violenza come modalità comunicativa e che la donna si uniformi ad un atteggiamento di sottomissione, rassegnazione, silenzio. Ricordiamoci sempre che la violenza si impara: avviene così la cosiddetta “Trasmissione intergenerazionale” dei modelli violenti che comporta la riproposizione, nella nuova famiglia, del modello relazionale che si è vissuto nella propria famiglia d’origine.

Le forme che la violenza può assumere sono varie: fisica, sessuale, psicologica, economica, relazionale.

Cosa fare allora per uscire dall’incubo? Innanzitutto ricostruire una propria rete sociale (spesso azzerata dal partner), comunicare quindi il proprio disagio, liberarsi dai sensi di colpa auto ed etero indotti, riconoscere la normalità delle emozioni sperimentate (vergogna, tristezza, disperazione, ecc), rivolgersi agli organi di sicurezza (Carabinieri, Polizia, ecc) e di tutela (associazioni antiviolenza, consultori, ecc..), seguire un percorso di ricostruzione della propria autostima e fiducia di sé basato sul riconoscimento e sul  sostegno-fronteggiamento dei bisogni affettivo emotivi negati.

Inoltre è fondamentale sostenere la trilplicità dei processi di prevenzione, ovvero garantire :

– Una Prevenzione primaria (obiettivo “evitare” il fenomeno) attraverso il sostegno psicologico ed educativo in riferimento allo sviluppo del rapporto genitoriale e quindi alla costruzione del processo di attaccamento, il sostegno psicologico nelle successive fasi del ciclo di vita, come ad es. la costruzione della coppia e delle relazioni familiari, il fronteggiamento di eventi normativi e paranormativi, ecc..;

–     Una prevenzione Secondaria (obiettivo “intervenire” sul fenomeno in atto) attraverso il sostegno   psicologico in età adulta alla donna vittima di violenza, alla famiglia, alla coppia;

– Una prevenzione Terziaria (obiettivo “riabilitazione e prevenzione delle recidive”). Il tasso di recidiva è circa il 70% nell’arco di 2 anni. Pertanto uno degli obiettivi politici e sociali per fronteggiare tale fenomeno deve consistere nel pianificare adeguatamente efficaci programmi individualizzati di trattamento psicologico e culturale per gli autori di qualsivoglia violenza in famiglia.

Francesca Capozza, psicologa-criminologa-psicoterapeuta

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