Lo stemma ‘fuorilegge’: Gabriele Venditti racconta la storia di un’anarchia tutta isernina

Lo stemma ridisegnato da G. Venditti

Si è tenuto ieri il convegno sull’araldica cittadina a cura del direttore della biblioteca comunale ‘M. Romano’: l’excursus unico dell’emblema cittadino, tra dettami regi, imprecisioni e divergenze storiche. GUARDA LA VIDEOINTERVISTA


ISERNIA. Verga o Scettro? Serpente o lettera S? E perché il cimiero piumato anziché la più formale corona turrita? Ma soprattutto: è sempre stato così? Sono ancora tanti gli interrogativi che pone il non comune stemma civico di Isernia, che dallo studio del direttore della biblioteca comunale ‘M. Romano’ Gabriele Venditti risulta non conforme al dettato delle norme che definiscono l’araldica civica per città e province italiane. Caso raro, che rende l’emblema cittadino in qualche modo ‘sbagliato’ e fuorilegge. Lo studioso ne ha parlato nel suo convegno, tenutosi ieri nella sala ‘K. Wojtyla’ di palazzo San Francesco, inserito nel cartellone del Settembre isernino curato dall’assessore alla Cultura Eugenio Kniahynicki, presente all’evento e partecipe come sempre.

L’ordinamento repubblicano in materia di araldica è molto chiaro: le ‘armi’ degli enti territoriali (Province, Comuni e Città; Regioni no, perché previste solo con la Costituzione repubblicana e non presenti nel Regno come enti territoriali) rimangono comunque regolate dal disposto dei Regi Decreti del 7 giugno 1943, n. 651, secondo i quali “Province, Comuni ed Enti Morali non possono servirsi dello stemma dello Stato, ma di quell’arme o simbolo del quale avranno ottenuto la concessione o riportato il riconoscimento a norma del vigente ordinamento araldico”. Un ultimo recente intervento normativo è stato compiuto con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 28 gennaio 2011. Perché lo stemma civico possa essere riconosciuto – attualmente se ne occupa l’Ufficio Araldico presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, essendo stata abolita la Regia Consulta Permanente Araldica – deve essere conforme alle regole tecniche dettate che fissano, per esempio, per le città un ‘timbro’ (cioè la parte dell’arma superiore allo scudo) costituito da una corona d’oro, formata da un cerchio di muratura con otto ‘pusterle’ (porte), di cui solo cinque visibili, che sostiene otto torri dorate (sempre solo cinque visibili) unite da cortine di muro pure dorato. Non c’è spazio quindi per l’elmo che è utilizzato sì come timbro dello scudo, ma solo nel caso delle armi di famiglia e indica, in tal caso, il grado di nobiltà del titolare dello stemma. E poi: sotto lo scudo, di tipo sannitico, vanno posti necessariamente due rami decussati (cioè posti a “X”), uno d’alloro e l’altro di quercia, trattenuti da un nastro tricolore; andrebbero perciò tolte le foglie di acanto che nello stemma civico isernino cingono lo scudo.

Insomma, pare che non ci sia nulla da fare: così com’è, l’emblema cittadino non potrebbe ricevere il riconoscimento dell’Ufficio araldico. Ma come e perché si è giunti a questo simbolo ‘sbagliato’? Venditti ha tentato di rispondere proponendo un excursus interessantissimo che va dalle primissime rappresentazioni di un emblema ante litteram, datate attorno al 1200, la cui suggestiva forma a $ potrebbe essere derivata dal monogramma ‘Ysernia’ presente sulla pergamena del giudice Rampini, custodita presso l’Archivio capitolare, e dalla ‘Croce di Celestino’. Ma la prima vera rappresentazione nota dello stemma, per quanto ne sappiamo, è del 1558: fu apposto sull’edizione a stampa (Regia Camera della sommaria, 22 dicembre 1558) del privilegio concesso a Worms da Carlo V, imperatore del Sacro romano impero e re di Spagna – quindi anche di Napoli. Qui non vediamo un serpente, ma una S sovrapposta ad uno scettro. Tale rappresentazione ritorna anche successivamente, con lo scettro sostituito addirittura da una I (1656, 1723, 1727 eccetera). L’uso della lettera S potrebbe dipendere dal fatto che, in quegli anni, la città era nominata anche ‘Sergna’ (così fanno Leandro Alberti in ‘Descrittione di tutta l’Italia’ del 1550 e altri autori). Lo stemma civico rappresenterebbe quindi l’iniziale della città, e lo scettro farebbe riferimento alla città regia, quindi al particolare regime giuridico qui imposto. È anche vero che le lettere I ed S, quando si esprimono in monogramma, hanno una forma abbastanza standardizzata che è appunto $: si può vedere nello stemma malatestano, presente anche nella cappella di Sant’Antonio datata 1756, molto simile a diversi disegni del De Leonardis e al ‘Metro’ dell’arco di San Pietro. Solo successivamente arriva la ‘serpa’, probabilmente per un processo di simbolizzazione: ma ci sono anche casi precedenti e antichi, con il serpente intrecciato allo scettro che ricorda il simbolo mercuriale del commercio, a testimonianza dell’alacre vocazione lavorativa della città. Il primo standard – con lo scudo e la corona – si rinviene solo attorno 1895 e viene usato comunemente fin circa il 1960; ma attorno al 1910 compare per la prima volta, sulla parete del Macello comunale in via S. Ippolito, lo stemma con il cimiero. Nel ventennio fascista ritroviamo quello coronato associato, in tutta la corrispondenza, al Fascio littorio; ma resta comunque quello standard a $ che si conserva quindi immutato. Nella prima carta intestata della biblioteca Romano (1950-60) compare quello coronato. Infine, nel 10 settembre 1963 si compie un piccolo capolavoro di schizofrenia: lo troviamo coronato, uguale ai precedenti, sul telegramma di accoglienza al presidente Leone, giunto per insignire la città della medaglia d’oro; ma sul gonfalone cittadino portato per le vie cittadine viene esposto quello presente in Comune con l’elmo, che ne è oggi la rappresentazione più conosciuta e diffusa… Questo anche se sui lampioni odierni esiste una ‘crasi’ di tutto: un emblema che riporta sia la corona che l’elmo, con un serpente stilizzato avvolto attorno ad un bastone (o lettera I).  

Se sia ora di cambiare definitivamente il simbolo cittadino, dandovi ‘statura araldica’, può essere oggetto di discussione. Ma questa rimane una meravigliosa storia di ‘anarchia popolare’, che caratterizza in qualche modo la città di Isernia e i suoi abitanti da sempre, e che Venditti ha saputo ripercorrere e tracciare in maniera mirabile, intrattenendo i numerosi intervenuti. L’argomento può essere approfondito con tutti i riferimenti del caso sul blog della biblioteca comunale.

Pietro Ranieri

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