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Ittierre, la proposta degli addetti ai lavori: “L’azienda torni in mani molisane”

Dipendenti e fasonisti diventerebbero azionisti rinunciando rispettivamente al Tfr e a una parte dei crediti. Necessario anche il rilancio del luxury. In attesa della presentazione del piano industriale, in seguito alla quale si conoscerà il destino della casa di moda di Pettoranello, via libera a proposte e idee per il rilancio sulle pagine di Facebook

 

ISERNIA. Dalla piazza ai mass media, dai mass media ai social network. L’arena pubblica si sposta sempre più sulla rete. E il dibattito sulla vertenza Ittierre non si sottrae a questa logica. Su Facebook, il gruppo  aperto a tutti ‘L’Ittierre siamo noi”, è costantemente aggiornato sulle news che riguardano l’azienda. Proprio sulla pagina social, nei giorni scorsi, si è aperta un’interessante discussione sulle possibili vie d’uscita dalla crisi per l’azienda specializzata nella produzione di linee d’abbigliamento in licenza. La proposta è unanime: Ittierre dovrebbe tornare nelle mani dei molisani. In particolare, Massimo Saluppo – commercialista di Campobasso al quale un gruppo di imprenditori molisani aveva dato mandato di studiare una soluzione per l’acquisizione, dalla Albisetti, della attuale Ittierre ad agosto scorso, prima cioè che l’azienda presentasse domanda di concordato, ha redatto uno studio sulla base della documentazione societaria disponibile nei pubblici registri. Ma dopo la richiesta di concordato da parte della attuale proprietà, i possibili acquirenti si sono tirati indietro – ha auspicato un’operazione “recupero. Recupero delle maestranze qualificate (operai, impiegati, management), attualmente fuoriuscite, recupero delle attività interne che hanno fatto grande l’azienda, recupero del rapporto fiduciario con i fornitori storici dell’azienda e, infine, recupero dei contratti con le storiche maison, che per la produzione si affidavano a Ittierre, come D&G”.

“Ciò che ha caratterizzato da sempre la Ittierre – scrive Saluppo- è stato quel filo sottile non soggetto a rottura che ha legato l’azienda al suo creatore. L’attuale proprietà, invece, è rimasta ‘estranea’ al territorio in cui nasce l’azienda”. L’idea del professionista campobassano va anche più nel concreto: i dipendenti, attraverso la rinuncia del Tfr, a favore dell’aumento di capitale sociale della ipotetica new-co, diverrebbero azionisti e avrebbero un accesso diretto alla gestione attiva della società anche mediante l’elezione di propri componenti del nuovo Consiglio di amministrazione”. Stesso discorso vale per i fasonisti, che dovrebbero rinunciare a parte dei propri crediti a favore della  ristrutturazione dell’azienda.

All’origine della crisi di Ittierre, ci sarebbe anche un errore strategico: lo spostamento del core business dell’azienda dai comparti del prodotto del lusso a quello del prodotto medio-basso. L’Ittierre è riuscita, cosi, ad ottenere una riduzione dei costi di produzione, a discapito, però, della qualità e, di conseguenza, della redditività delle linee d’abbigliamento. Una scelta, dunque, che, oltre a svilire la natura stessa dell’azienda, leader nel mercato del luxury, si è innestata in un periodo storico in cui, nonostante la crisi, il comparto del lusso non ha conosciuto flessioni. Per questo motivo, per il rilancio “è imprescindibile – scrive Saluppo – una proposta che contempli la partecipazione attiva della classe politica”, la quale dovrebbe impegnarsi nel ricostruire rapporti con grandi stilisti e prestigiose case di moda”. Piuttosto scettico sulla proposta di Saluppo è Vincenzo Capone, uno dei dipendenti dell’azienda di Pettoranello. “A mio avviso – scrive anch’egli su Facebook- lo scenario oggi più plausibile è quello derivante dal fallimento della Ittierre e dalla costituzione di una nuova società. Non penso che ci possa essere alcun imprenditore disposto ad accollarsi gli attuali debiti”. Ancora nel segno dell’ottimismo la risposta di Saluppo, che scrive: “Lo scenario del fallimento non è quello più plausibile, ma purtroppo è una possibilità fino all’omologazione del piano concordatario. Imprenditori disposti a investire in una new-co potrebbero esserci in quanto, se i debiti da bilancio 2012 ammontano a 90 milioni di euro, vero è anche che esistono nell’attivo patrimoniale poste utili per il pagamento in percentuale del ceto creditorio”. Ma l’azienda è praticamente ferma e ingessata: “Per questo – si legge nella controrisposta di Capone – è elevata la possibilità che la domanda di concordato non venga accolta e sfoci nel fallimento”. Su una cosa, però, Capone concorda con Saluppo: “Il coinvolgimento a livello societario di dipendenti e fornitori molisani, con modalità ovviamente da definire, potrebbe essere un modo per riaffermare l’identità regionale e per creare una vera e propria filiera del tessile molisana”. 

VD

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