Categories: CRONACA

Punita con la morte ‘perché voleva amare’

Il Caso di Sana, la 25enne pakistana cresciuta a Brescia, uccisa verosimilmente dai familiari perché rifiutava il matrimonio combinato


*D.ssa R. Francesca Capozza

Desiderava essere libera, desiderava vivere i suoi anni di giovane donna, desiderava poter essere una ragazza semplicemente come le altre, desiderava amare. Questo desiderava Sana Cheema, la 25 enne pakistana cresciuta a Brescia. Si era perfettamente integrata nel nuovo contesto sociale e culturale in cui viveva da molti anni: dopo aver frequentato le scuole, aveva lavorato presso una scuola guida ed infine si era messa in proprio, gestendo una agenzia di pratiche automobilistiche. Viveva i suoi anni come una ragazza “del posto” esprimendo determinazione, responsabilità nelle scelte e desiderio di essere libera nei pensieri e nel cuore. Un cuore ed una mente forse difficilmente “accettabili”, se la cultura familiare non consente loro la necessaria libertà.
Il padre mostrava le foto dei possibili pretendenti tra i quali lui avrebbe scelto il marito giusto per la figlia. Troppo forti le tradizioni della cultura di provenienza, interiorizzata a tal punto da rifiutare la possibilità che la figlia si sottraesse al suo destino culturalmente segnato: un matrimonio già combinato in patria. Ed è qui che è avvenuto l’omicidio della giovane, inizialmente occultato come morte naturale per infarto. Il padre ed il fratello, nonché uno zio, sono in stato di fermo per omicidio, come confermato dall’ambasciata italiana a Islamabad. Il corpo durante i funerali era completamente coperto, sino al collo. In tal modo alcuna traccia di violenza su di esso era visibile. Si è in attesa della riesumazione del corpo, per l’esecuzione dell’autopsia.
Questo tipo di omicidio afferisce alla categoria dei reati culturalmente motivati, ovvero un delitto tipico in cui si manifesta la matrice culturale, come prodotto dello scontro tra 2 culture. 3 gli elementi costitutivi:
1) Motivo culturale (riconducibilità della causa psichica soggettiva della condotta al bagaglio culturale di cui il reo è portatore); 2) Coincidenza di reazione (convergenza tra la motivazione individuale e una regola culturalmente diffusa e osservata nel gruppo etnico di appartenenza); 3) Divario tra culture (consente che uno stesso comportamento sia socialmente e moralmente accettato in una cultura e non nell’altra).
Siamo dinanzi ad un omicidio familiare in difesa dell’onore. Centrale è la difesa dell’onore familiare da parte dell’omicida nei confronti dell’intera comunità etnica di provenienza. È il capofamiglia ad uccidere un membro del gruppo familiare a causa della sua violazione del codice etico e delle regole culturali osservati dalla comunità familiare. Diventa quindi intollerabile la sopravvivenza di colui che non ha osservato regole e principi della famiglia. Costui “deve” essere ucciso per ripristinare l’ordine violato e l’onore leso. L’onore è inteso quindi come bene giuridico superiore a quello della vita.
Si tratta di padri migranti che non consentono ai figli una totale integrazione; non hanno accolto pienamente i principi e i costumi della cultura occidentale e non accettano che questi possano esprimere libere scelte non sancite dal pater familias. In tali contesti, sono accettate e spesso incoraggiate forme di giustizia privata a cui partecipa tutto il nucleo familiare (anche una madre che non si oppone), caratterizzate da efferatezza ed esaltazione della condotta da parte degli altri componenti. Maltrattamenti, violenze fisiche e psicologiche fino alla soppressione di una vita, appaiono scelte praticabili o “doverose” per riabilitare l’onore leso da una giovane vita che desiderava semplicemente di poter essere se stessa e decidere come e chi amare.

*Criminologa, psicologa, psicoterapeuta

 

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Alessandra

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