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Moda, la crisi del family business e la conquista estera del made in Italy: parla Romolo D’Orazio

I francesi, appunto, Lvmh di Bernard Arnault (nella foto, ndr) su tutti, che ha ‘in portafogli’ marchi come Bulgari, Fendi, Givenchy, Kenzo, Loro Piana e Louis Vuitton. Come si fa a diventare così grandi?

Rimanendo fedeli a se stessi. Loro, i francesi, lo hanno fatto e hanno vinto. Quando ho iniziato il mio lavoro nel ‘99 in Ittierre, prendevamo in giro i francesi perché noi facevamo dei prodotti pret-a-porter, con un prezzo medio, venduti un po’ dappertutto a un prezzo anche inflazionato rispetto al valore in sé. I francesi, invece, non hanno mai abbassato il livello fermo restando il prezzo alto: hanno sempre fatto un prodotto alto di gamma anche negli anni ‘90, quando andavano i jeans, le t-shirt e prodotti più popolari. In quel periodo, quando sono nate le seconde linee – Versace jeans, Cavalli jeans, Armani jeans – loro sono rimasti fedeli al lusso. In quel momento hanno sofferto, ma sono rimasti fedeli. Quando quel mondo di mezzo è ‘morto’ perché è venuta meno la classe media con la crisi, e sono nate le catene come H&M e Zara che hanno preso quella fetta sociale, chi era in alto è rimasto in alto. Louis Vitton, Gucci, Dior, hanno continuato a crescere. Perché in quel momento le classi sociali si sono divise tra il lusso e il ‘basso’, mentre il centro è stato spazzato via”.

Ci sono tuttavia eccellenze italiane che resistono e non si vendono. Come Prada o Armani.

“In Prada sono stati bravi. Si tratta di una delle poche maison italiane – tranne in un periodo quando hanno tirato fuori la linea sport – che non ha mai ceduto alle tentazioni, facendo un po’ suo il modello francese e restando rigorosamente ancorata ai canoni della prima linea lusso. Armani è tutto l’opposto: è stato uno dei primi, 30 anni fa, a fare tutta una serie di seconde linee, interpretando i bisogni del mercato in ogni posto. Poteva avere un tipo di linea a seconda dei vari luoghi e ha diversificato ogni singola linea per andare a coprire ogni bisogno del mercato. Ecco perché è un’eccezione”.

Non solo i francesi, tuttavia, fanno ‘shopping’ in Italia. Ricordo l’emiro del Qatar che acquistò Valentino a un prezzo di svendita, quasi. Ma questa ‘emorragia’ non si può fermare in nessun modo?

“Non credo. La ricchezza si è spostata in Oriente, in Cina, nei paesi arabi e mediorientali. Se si analizzano questi fenomeni non nel corso degli ultimi 30 anni, ma di 300, si vedrà che la ricchezza si è sempre spostata. Trenta anni fa la Cina era povera, all’apparenza, e noi eravamo il mondo occidentale ricco. Oggi la Cina ha partecipazioni in tutto. È una questione di capitali e numeri. Dove ci sono i soldi ci si muove. È una potenza economica troppo più grande rispetto a quelle che possono essere le nostre capacità. C’è da dire, però, che tutte le aziende acquistate da capitali esteri hanno mantenuto la propria italianità: chi acquista l’azienda italiana non è che la porta a Parigi o a Dubai, la lascia lì. Questo vuol dire che viene apprezzato il made in Italy e il nostro modo di fare il prodotto. Anche se il capitale viene da fuori, le fabbriche stanno in Italia, si pagano le tasse qui, a livello pratico il danno economico non c’è, anzi: l’arrivo di un capitale che sviluppa può portare all’assunzione di nuove persone. Quello che dispiace è che purtroppo, ma non è colpa di nessuno, si perde la titolarità delle aziende. Però lancio una provocazione, a livello imprenditoriale e speculativo”.

Dica pure.

“Ragioniamo per assurdo e poniamo che tra cinque anni Modaimpresa diventi una struttura importante a livello internazionale. Arriva in Molise un investitore straniero e mette sul tavolo un valore venti volte superiore a quello effettivo dell’impresa. Se io la vendo, ho fatto business. Con questo voglio dire che non ci si deve affezionare troppo a ciò che si crea: chi fa impresa deve creare valore e passare all’incasso. Vale per chi investe in borsa e per chi crea aziende. Io penso che l’imprenditore bravo è quello che costruisce, crea valore e vende a un prezzo alto. Non c’è da scandalizzarsi se le aziende vengono vendute, quando i capitali stranieri arrivano qui. Noi per anni, dai tempi dell’impero romano, abbiamo fatto al contrario, andavamo a ‘colonizzare’ altre zone: è tutto normale.

Quindi se arrivasse l’emiro di turno, in Molise…

“Ma magari!”.

Lei ha descritto il mondo della moda diviso in blocchi, tra grandi colossi del lusso e piccoli marchi. In questo quadro, come fa a reggersi Modaimpresa? Qual è stata la ricetta vincente finora?

“È molto complicato. È chiaro che l’intelligenza dev’essere quella di non andare a fare una lotta impari, saremmo ridicoli. Dobbiamo invece metterci in scia di certi fenomeni, imitarli nel modello e capire nella nostra piccola nicchia qual è il trend che sta funzionando. Tradotto, se i marchi che vanno sono Gucci e Prada, la nostra ambizione è – con marchi come Marcobologna o Le Tonerre – di essere nei negozi che vendono Gucci e Prada. Chiaramente loro immetteranno 100mila euro di ordine, noi 5mila, ma non abbiamo gli stessi costi: siamo un’azienda molto snella e veloce. La competizione non è proprio in essere: è come se oggi fondassimo una squadra di calcio e volessimo competere con la Juventus, impossibile. Però si può mutuare il modello in C1 ed essere vincenti per arrivare un giorno in serie A”.

 

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Pasquale

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