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Prima serata di Sanremo 2019, le pagelle di isNews

Sul palco dell’Ariston più sbadigli che divertimento, a dimostrazione di come, per andare per davvero contro la corrente nazionalpopolare, si finisca nella ‘zona rossa’, anche con buone canzoni. Le impressioni della serata a cura di Pietro Ranieri


SPETTACOLI. Che fatica, signora mia. La settimana di Sanremo è forse la più attesa e complicata per chiunque si occupi di musica, televisione, gossip e in generale spettacoli. E – per quanto lo si possa odiare o amare – tutti ne parlano. Potevamo esimerci anche noi? No, certo. Perché almeno abbiamo la decenza di non comportarci come degli intellettualoidi con la puzza sotto al naso, di quelli che fanno finta di ignorare e schifare questi eventi salvo poi ricadere nel solito meccanismo da burattini del sistema televisione. Almeno, noi siamo burattini consapevoli.

Sorvoliamo sull’ipocrisia di una manifestazione che impose il playback a Freddie Mercury e che ieri sera ha tentato poi (senza successo) di celebrarlo e andiamo con ordine, per quello che è una delle serate di debutto forse meno divertenti di sempre, il che è di per sé già una battuta, visto che accanto a Baglioni ci sono due comici alla conduzione – insipida e scialba, peraltro, che altalena tra il tecnicismo forzato, i siparietti inutili e i momenti vuoti. Per fortuna esiste internet e già dalle 10 di ieri sera Facebook era pieno di meme dedicati a Patty Pravo, sul palco col pianista incontinente e Briga in un’interessante nuova versione a metà tra uno dei Gemelli albini di Matrix e un Predator. Una roba che da sola valeva la visione dell’intera prima serata.

Ma questo è soprattutto il Sanremo dei ‘ggggiovani’, perché dichiaratamente porta sul palco dell’Ariston l’indie (sic) e la trap. La trap. A Sanremo. Interessante. Dev’essere per questo che in ossequio a questa spinta di ‘gggioventù’ la scaletta l’ha aperta Renga. Della cui canzone ci sarebbe piaciuto capire qualcosa di più, peccato che a quanto pare per un’incredibile coincidenza questa è anche la settimana in cui la categoria dei fonici incrocia le braccia. In pratica: non si capisce niente. La situazione non migliora con Nino D’Angelo e Livio Cori, la quota dialettale per quest’anno, che visti i risultati ci saremmo sinceramente risparmiati.

Nek interpreta sé stesso in cosplay di Sting con una canzone che ci torturerà in radio per i prossimi mesi. Poi ci sono gli Zen Circus e un po’ l’umore migliora: ‘L’amore è una dittatura’, il loro pezzo, suona di cantautorato, con un testo complesso, senza ritornelli, pensato e pesato. Una di quelle robe che faceva gente tipo Tenco, che su quel palco ci stava come un pesce fuor d’acqua e proprio per questo rimaneva nella storia. Bello, bello, bello. Ma noioso per i piùù. Perciò andava evidentemente abbassato il livello con Il Volo, messi in scaletta prima dei Bocelli per evidenziare le differenze e far capire al pubblico come non si canta lirica.

È il turno della Bertè. Giù il teatro. Loredana è il vero fil rouge tra il vecchio mondo musicale italiano, di cui era già contestatrice, e il nuovo, dimostrando di essere da sempre venti o trent’anni avanti. Si fa la doppietta con Daniele Silvestri e Rancore, grande pezzo, molto anni 90, ritmato, con spunti sociali interessanti. Federica Carta e Shade… chi, scusate? Ultimo è già probabile vincitore. Lo vediamo volare altissimo al televoto popolare. Sottotono invece Paola Turci, che non riusciamo a non amare e proprio per questo ci spiace molto non abbia funzionato così bene.

Tocca a Motta, un ragazzino che però si è davvero mangiato il palco con la sua timidezza emozionata. ‘Dov’è l’Italia’, ce lo chiediamo un po’ tutti. Abbiamo ascoltato un po’ dei suoi altri lavori e c’è da dire che non è il suo apice, ma comunque emerge su un vuoto pneumatico di banalità ponendo anche una certa critica a quelle canzoni tipicamente sanremesi sullo stile di ‘Italia mia quanto sei bella quanto ti amo’. I Boombdabash ci provano, ma ormai il rap a Sanremo non stupisce più di tanto. Figurarsi se è una roba come questa, ormai sconfinata nel pop. Dopo i già menzionati Pravo-Briga, è il turno di Cristicchi. Che ha sinceramente un po’ rotto con questa retorica dell’intellettuale finto tonto poeta a tutti i costi.

Arriva Achille Lauro e il festival torna al 2019. Con buona pace di tutti i critici da social che “oh no, l’autotune all’Ariston, dove-andremo-a-finire, perché-nessuno-pensa-mai-ai-bambini”, quegli stessi ‘bambini’ che a 15 anni già sanno piuttosto bene come procurarsi canne e alcool nascosti dietro la facciata di perbenismo delle loro famiglie. Achille lo sa e ce lo sbatte tranquillamente in faccia. E poi, sorpresa sorpresa, Arisa: un pezzo musical, ma che apre su un ritornello allegro, piacevole e perfetto per Sanremo – senza rinunciare però ad una certa personalità. I Negrita, con grande dispiacere, sono invece piuttosto dimenticabili.

Ghemon si esibisce con un bel soul ritmato, di classe, elegante, senza smentire la sua natura. Einar e Irama sono così anonimi che non ricordiamo nemmeno le loro facce. Gli Ex-Otago confermano la loro svolta verso il pop italiano in un altro pezzo che sentiremo parecchio in radio. Anna Tatangelo è il trionfo degli anni 90, quasi che t’immagini uscirà Pippo Baudo a presentare il resto della kermesse. Chiudono Enrico Nigiotti con un pezzo intriso di nostalgia per epoche mai vissute e Mahmood che, bontà sua, si esibisce a notte fonda ed è un peccato, perché il suo pezzo è molto, molto figo, suonato da dio e con una voce strana, interessante, da riascoltare.     

La serata tra uno sbadiglio e l’altro finalmente finisce e la demoscopica sancisce ancora una volta che Sanremo è sempre Sanremo, e che andare per davvero contro la corrente nazionalpopolare significa finire nella zona rossa. Anche se fai canzoni da paura.

P.S. Ringraziamo personalmente (e abbraccio forte, ndr) ogni singolo membro dell’orchestra. Musicisti incredibili forse mai troppo celebrati. Grazie, davvero, i veri giganti di Sanremo siete voi.

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Pietro

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