HomeNotizieCULTURA & SPETTACOLIAncora un successo per 'Anamanacanda'

Ancora un successo per ‘Anamanacanda’

La commedia di Giampaolo D’Uva all’Auditorium di Isernia


di Giovanni Petta

RECENSIONE. Il teatro fa sempre bene alla comunità in cui viene rappresentato. Il Teatro di ogni tipo: quello satirico, quello tragico, quello comico o quello musicale. Fa bene perché crea occasioni di incontro, prima e dopo lo spettacolo. E quanta necessità ci sia di incontri nelle comunità del nuovo millennio lo sappiamo bene. Le singletudini che diventano solitudini, a volte patologiche, persino all’interno delle famiglie, sono sempre più frequenti.

Il teatro fa bene anche perché costringe alla riflessione. Ci obbliga a una pausa che altrimenti non ci concederemmo. Ci divertiamo e, nello stesso tempo, pensiamo al mondo e a noi stessi, pensiamo agli altri e a ciò che siamo.

«Anamanacanda» – commedia in tre atti proposta dall’associazione culturale «L’Areté», firmata da Giampaolo D’uva e liberamente ispirata a «Hanne sciaccate Amatucce» di Vincenzo – è stata rappresentata all’Auditorium di Isernia con le scene di Filippo Senerchia e con il successo di pubblico che accompagna da sempre i lavori di D’Uva.

Sul palcoscenico le vicende di un Don Giovanni nostrano e di un guaritore d’altri tempi; vicende che hanno consentito di mettere in rilievo quel bisogno, ancora tanto sentito, di rivolgersi all’irrazionale per trovare soluzioni alla propria esistenza.

Nella figura del guaritore si è sentita l’eco delle cose raccontate dai nonni e messe per iscritto, con grazia e perizia, da Amerigo Iannacone ne «Il mago di Pontano» contenuto nello splendido libro «A zonzo nel tempo che fu» dello scrittore venafrano.

I personaggi della storia, collocati in un tempo passato, tentano di affermare la propria esistenza, di darle un senso, lottando contro le avversità e mettendo in pratica ogni soluzione possibile, onesta o disonesta che sia, per risolvere i problemi della quotidianità.

Il senso morale di ognuno di essi crea sensi di colpa e la comicità nasce proprio dal tentativo di giustificare, agli altri e a se stessi, le scelte che di volta in volta vengono fatte per muoversi nella complessità della vita.

Le performance dei navigati D’Uva e Di Florio, calati profondamente nei loro personaggi, sono state superlative per l’adesione fortissima ai tipi che rappresentavano: caratteri che conoscono da sempre e che costituiscono la cifra più caratterizzante del loro lavoro attoriale.

Bravissimi gli altri attori. Gianni Antonilli, preciso nel suo ruolo di aiutante del mago; Cosmo Antenucci, attento propositore del latin lover di casa nostra; Raffaele D’Angelo, pertinente nel rappresentare con realismo il cliente del mago del tempo che fu; Angela Di Gneo, bravissima nel rendere la fisionomia della maestrina belle-époque di provincia; Marina Lucarino, puntuale nel restituire i falsi tic di una ragazza innamorata; Salvatore Rossi, divertentissimo nel proporsi come il cafone di borgata con una intelligenza tutta genuina e primitiva; Annamaria Iannone, calata con cura e immedesimazione nel ruolo della parrucchiera pettegola d’altri tempi; Nicola Ciarlante, aderentissimo al ruolo del padre che cerca nella «magia» la soluzione ai problemi del figlio; Luciano Ricchiuti, capacissimo di scolpire nell’immaginazione del pubblico il personaggio del nobile decaduto che cerca un riscatto sociale ed economico puntando a un matrimonio di convenienza; Luigi Crudele, impostato con il giusto equilibrio di atteggiamento e voce per sottolineare l’importanza della scienza rispetto agli intrugli del «magaro». Infine Laura Tamburro e Luigi Cimorelli: la prima effervescente e senza impacci nell’interpretare la cittadina costretta alla vita di borgata; il secondo esplosivo e comicissimo, con una mimica da attore consumato, nell’impersonare i falsi difetti fisici di un giovane che vuole amare la sua donna senza i limiti oppressivi della società del tempo.

Giampaolo D’Uva e i suoi hanno ricercato nel passato, nella tradizione più verace e sanguigna, l’essenza profonda e lontana di ciò che siamo. Attraverso gli stili di vita ormai abbandonati hanno sottolineato i tic, le piccolezze e le bellezze dell’anima dei nostri antenati che sono ancora riconoscibili nel Dna degli isernini del presente. E hanno divertito il pubblico.

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