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Un calcio al virus. Rakitic: “Pronto a rischiare, voglio tornare in campo”

La stella del Barcellona: “Abbiamo un debito con la società, se rischiano nei supermercati dobbiamo essere pronti anche noi”. Ma in Italia, dopo lo stop in Francia e in Olanda, si va sempre più vicini a decretare la fine della stagione sportiva di Serie A e categorie minori


di Pasquale Bartolomeo

Ivan Rakitic vuole giocare. Senza se e senza ma. Il campione croato, perno del centrocampo del Barcellona, da tempo corteggiato dai maggiori club italiani quali Inter e Juve, vuole ‘sfidare’ il coronavirus. E tornare in campo, nonostante i rischio del contagio. Le sue parole, in prima battuta, sembrano essere dettate da irresponsabilità da parte di chi, forte di uno stipendio astronomico, sembra vivere in una bolla e non capire la gravità di cosa accada intorno.

Ma il centrocampista vicecampione del mondo argomenta bene il suo pensiero, in un’intervista ‘Marca’ rilanciata dalla Gazzetta dello Sport. E ne fa una questione di rispetto verso la società, dove anche altri lavoratori hanno dovuto rischiare nel fare il proprio dovere e convivere, giorno dopo giorno, con la spada di Damocle del virus. “Sono pronto a correre il rischio di essere contagiato, ma voglio tornare a giocare – dichiara Rakitic – Lo dico con la consapevolezza che il rischio sarà molto piccolo. Dobbiamo giocare con le massime misure di sicurezza, sapendo che non sarà mai sicuro al cento per cento, per noi come per qualsiasi lavoratore. Anche i dipendenti dei supermercati si cambiano negli spogliatoi e hanno le stesse possibilità di contrarre il virus rispetto a noi, o forse anche di più. Loro corrono quel rischio e anche io voglio farlo”.

Una forma di solidarietà, quella propugnata dal campione croato, che non vuole più sottrarsi dal fare quello che, oltre a essere il gioco più amato del mondo, è comunque il suo lavoro. “Penso – ha aggiunto Rakitic – che abbiamo quel debito, dobbiamo restituire alla società quel che abbiamo ottenuto in questi anni, e non dico solo il termini economici: dobbiamo tornare a far divertire la gente, perché non parli solo di virus. Leggo in questi giorni di danni economici, di calendari, di retrocessioni, ma non leggo nulla di passione della gente. La Francia ha dichiarato chiuso il campionato? Penso che non esista una ricetta univoca. Ciascun Paese si regola secondo la propria situazione”.

Un messaggio quanto mai attuale, visto lo stallo tra il governo italiano – con il ministro dello Sport Spadafora apparso sempre più fuori ruolo – la Federcalcio e le altre componenti del settore. Spadafora ha praticamente rimesso l’ultima parola al Comitato tecnico scientifico, che già qualche giorno fa, con una fuga in avanti di Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di Malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, aveva fatto capire che non ci sarebbe stato parere favorevole. E i dati erano peggiori di adesso.

Sempre il Cts, pochi giorni fa, ha bollato come insufficiente il protocollo per la ripresa del campionato di Serie A e, a cascata, delle categorie minori. Il ministro, sul punto, ha lasciato intendere quella che sembra una decisione già presa, ma di cui nessuno vuol rivendicare la responsabilità: lo stop definitivo della stagione sportiva “creando – questa la rassicurazione di Spadafora – nei limiti, le condizioni affinché il mondo del calcio paghi meno danni possibile”.

Insomma, la politica non decide nonostante e la serie A continua a ritenersi un’eccezione nel sistema Italia, nonostante le evidenti difficoltà legate alla possibile ripresa: per ricominciare sarebbero necessari i tamponi con risultati immediati, i test sierologici, condizioni a rischio zero sia per gli allenamenti che per le partite. Le quali, per quanto a porte chiuse, muovono comunque decine di persone tra atleti, tecnici, dirigenti, giornalisti e addetti ai lavori.

Ma la verità è anche un’altra: ammesso che la serie A davvero salti definitivamente, nessuno può dare garanzie su una data certa di ripresa, neppure per la prossima stagione. Annullamento sine die ed ennesima mazzata all’economia. Perché il calcio non è solo passione e divertimento per i tifosi o stipendi da nababbi per le sue star: ma rappresenta, come scrive ‘Il Manifesto’, la terza potenza industriale in Italia, con un giro d’affari da 5 miliardi, di cui uno e mezzo nelle casse dell’erario.

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Pasquale

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