I fatti risalgono a metà Ottocento in una località sannita e documentata in un verbale giudiziario. Alcune ragazze morirono per le torture subite
di Alessandra Gioielli
Fra le opere del medico, antropologo e criminologo Abele De Blasio (1858-1945) ce n’è una che contiene notizie sulla condotta immorale e violenta d’un curato sadico, che aveva «inventato dei martirii speciali» e che agì delittuosamente a metà Ottocento. Per documentare “le gesta” perverse di costui, De Blasio trascrisse la «denunzia presentata da Antonia F. al giudice […] a scopo di veder punita la belva umana […] che colle sue sevizie aveva procurato la morte a parecchie giovanette».
Tra le vittime – si apprende dalla denuncia – vi fu una «sfortunata ragazza» [tale Barnaba B.] a cui il sacerdote ordinò di far voto di castità e di procurarsi «un corpettino» da indossare «a carne nuda, allacciato stretto»; e ciò per tre ragioni: la prima «per penitenza»; la seconda «per togliere lo scandalo giacché aveva essa il petto molto grande e pieno»; la terza «per impedire che divenisse indiavolata». Successivamente, il curato comandò alla stessa ragazza di «mettersi delle spille nel petto, cioè conficcate nelle mammelle in modo che ne doveva uscire di fuori la sola testa». E le spille dovevano essere «dieci» per ogni mammella e «l’obbligò a tenercele per lo spazio di 16 giorni».
Diverse furono le donne torturate dal prete. A tal proposito, ecco cosa si legge nella denuncia: «Le ore in cui egli fa l’operazione di conficcare le spille nel petto delle ragazze è durante la confessione».
Nel suo libro, De Blasio segnalò anche la verbalizzazione di altre accuse contro il curato, ancor più gravi: «Vogliono certuni che lui, mediante le sue sevizie, abbia cagionato la morte a molte ragazze».
Nella denuncia «presentata da Antonia F. al giudice», ella richiamò anche l’analoga querela «fatta da Vittoria d. S.». Stando costei ammalata, andò a trovarla una vicina di casa «chiamata Dorotea» la quale, sospettando che la malattia di Vittoria dipendesse dal curato, intendeva scoprire la verità. Per cui cominciò a farle domande e, «tanto fece e tanto disse che l’ammalata non poté più a lungo tempo celare la cagione della sua malattia, ed inculcandole la maggior segretezza possibile, le disse che il curato, dopo di averle fatto fare molte penitenze penose, finalmente l’aveva egli stesso con un filo rustico legato il caporello [capezzolo] della zizza, e lo aveva stretto molto, che infine avendogli dato una stretta fortissima lo aveva reciso quasi tutto, onde essa dal gran dolore era svenuta, che indi ripigliatasi alquanto, e ritornatasi alla casa le era venuta la febbre, e ci era concorso marcia, perciò era obbligata stare in letto».
Come sia finita la triste vicenda, De Blasio non lo scrisse. Si limitò a far notare che, «mentre questo ‘mazoclaste’ [ossia distruttore di mammelle, dal greco mastós (seno) e kláo (rompere)] commetteva tanti enormi delitti, il capestro e la mannaia funzionavano con scrupolosa esattezza». Infatti, all’epoca in cui questi fatti accaddero vigeva la pena di morte.
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