HomeNotizieCULTURA & SPETTACOLIPremio Paci, settimo appuntamento: l’intervista a Giorgio de Finis

Premio Paci, settimo appuntamento: l’intervista a Giorgio de Finis

L’antopologo e direttore del MAAM in una chiacchierata a tutto campo con la critica d’arte Carmen D’Antonino


ISERNIA. Intervista lunga molto ricca di spunti e di riflessioni da cogliere, che la critica d’arte Carmen D’Antonino rivolge a Giorgio de Finis, figura poliedrica del mondo dell’arte: antropologo, ideatore di musei, direttore del MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, direttore del MACRO ASILO, direttore del futuro Museo delle Periferie.

La video intervista integrale è on line sulla pagina facebook e sul profilo IGTV dell’associazione.

CD’A – Arte inclusivista o escluvista? Ovvero: è giusto che l’arte si carichi di valori altri trasversali plurimi, che appartengono di più alle sfere delle scienze sociali, umane, urbane, ecologiche politiche o è più giusto perseguire l’idea Crociana dell’arte come disciplina autonoma?

GdF – l’autonomia dell’arte è storicamente un punto di arrivo ineludibile, nel senso che la si raggiunge per cercare l’arte libera dalle pressioni del potere, della committenza in generale. Quindi ad un certo punto l’artista diventa una singolarità, “un’anomalia”. Gli si chiede di tagliare i ponti con la società all’interno della quale cresce e si confronta comunque, ma l’idea è che l’artista sia una figura per certi versi come l’antropologo, non è un caso che sempre più artisti diventino antropologi e viceversa, sia un essere “umano a radici zero”, cioè che taglia i ponti con il mondo d’origine e conserva la libertà di “cancellare la lavagna”. Gli artisti sono cioè quelli che vivono in un mondo ma a loro si richiede di offrirci gli occhiali per guardarlo in un altro modo. L’autonomia dell’arte certo ci dev’essere, io per esempio faccio un’arte relazionale, partecipata, quindi il mio interesse è quello di creare relazioni sempre molto strette, però queste vengono un passo dopo: prima c’è l’artista come singolarità, che per definizione quasi, deve dire altro attingendo dalla stessa realtà in cui è immerso ma per converso questa singolarità non può diventare un idioletto, non può diventare una lingua che parla lui solo e non capisce nessuno. Spesso l’arte è autoreferenziale, ciò deriva da una difficoltà numerica per la quale obiettivamente resta difficile che tanti artisti riescano a farsi sentire da tante altre persone. Però molte volte l’autoreferenzialità è del “sistema dell’arte” più che del “mondo dell’arte”. Il Sistema dell’arte rischia di essere una sfera del mercato autonomo che parla a sé stesso inventandosi proprie regole e attenendosi scrupolosamente a quelle ma, rivelando in questo modo tutti i limiti di un sistema auto-costruito.

CD’A – Uno degli effetti collaterali di questa pandemia è che ci ha costretto a ripensare le nostre abitudini compreso quella di fruire dell’arte nei suoi spazi tradizionalmente intesi. In che modo è cambiato lo spazio dell’arte? Quali gli aspetti negativi e quelli positivi?

GdF – in realtà i musei non sono luoghi così spesso frequentati, tranne i grandi i musei del turismo di massa, ma i gli altri musei hanno sempre avuto problemi di pubblico, per cui la pandemia non ha spostato troppo le regole del gioco. Un museo come il MACRO ASILO, per esempio, in cui il pubblico era funzionale al progetto stesso di museo, forse avrebbe inizialmente risentito rispetto alle regole del distanziamento e alla chiusura degli spazi museali, anche se in realtà sarebbe stato facile ripensarlo come un palinsesto digitale, nel senso che la nostra idea era quella di istituire tante stanze, tante camere, ognuna con le proprie regole. Gli atelier del MACRO ASILO erano infatti delle stanze di vetro in cui l’artista restava dentro isolato. Non ci sarebbe stata molta differenza tra il pubblico in presenza e una telecamera che lo riprendeva tempo reale.
Il digitale certamente ci viene incontro. Caratteristica del mio museo è stata quello di essere un’agorà, non era un museo della contemplazione ma un museo da vivere. Un museo della socialità. Temporaneamente si può vivere una socialità anche a distanza.

CD’A – Qual’ è il ruolo dell’artista nei confronti della propria opera?

GdF – È importante, dal mio punto di vista, che l’artista rimanga vivo, nel senso di non rimanere fossilizzato su un segno, che sanno rinnovarsi, che sanno sterzare improvvisamente, ed è per questo che sul contemporaneo è importante che i critici e i curatori non blocchino l’artista dentro un paradigma perché l’artista se è vivo ci sorprenderà! Il problema di certa critica e di certo Sistema, che ovviamente tendono a fare mercato sulla riconoscibilità di un segno consolidato, è che gli artisti vanno classificati e ordinati dentro compartimenti stagni forzandolo a seguire di più le esigenze del mercato che le sue “forme sclerotiche”. L’immobilità è la morte dell’arte e dell’artista.

CD’A – Durante questa pandemia molti hanno usufruito della socialità dell’arte come momento di aggregazione “a distanza”. Pensi che questo potrà cambiare la posizione che l’arte ha nella società oppure si tratta di un momento transitorio che finirà col riportare l’arte in un ambito di nicchia come molti hanno sempre pensato e pensano?

GdF – Sono totalmente contrario all’arte di nicchia. L’arte di nicchia è Sistema è finanza. Il sistema come lo intendiamo appartiene ormai alla finanza è una celebrazione del dio denaro e questa è inevitabilmente una cosa per pochi ai quali si chiede anche di inginocchiarsi al cospetto di questi 40 artisti super-celebrati che incarnano di più il dio denaro che le istanze dell’Arte, la quale deve entrare e uscire nella nostra vita ed essere continuamente con noi perché appartiene ai Sapiens, è una condizione che appartiene agli uomini dalle grotte di Lascaux ad oggi e che ci caratterizza. Io penso che l’Arte ci sarà sempre e troverà sempre il modo di fuggire sia dalle strettoie del Sistema ma anche da quelle della pandemia. Immagino che alcune di queste limitazioni imposte dall’emergenza sanitaria passeranno, ma che alcune altre funzioneranno da pretesto per ripensare cose. Questa pandemia ci ha fatto ulteriormente vedere quanto è disuguale la vita di alcuni rispetto ad altri, di chi per lavoro è costretto a uscire, prendere mezzi pubblici, quindi esporsi suo malgrado e chi invece può comodamente restare a casa.
Secondo me vedere e rivedere le cose è interessante. Gli artisti ci aiutano a vedere le cose e forse anche a correggere quelle non troppo giuste.

CD’A – Quali prospettive evolutive prevedi nella tua ricerca?

GdF – Bhè! Vorrei lasciarmi sorprendere anche io! Adesso sto lavorando ad un nuovo dispositivo museale Che è il Museo delle Periferie, che può sembrare un ossimoro, poiché la periferia è considerata il luogo più brutto mentre il museo il luogo della valorizzazione. L’esperimento che stiamo facendo è quella di tentare di valorizzare quelle cose che spontaneamente producono già valore, cioè che in qualche misura rispondono in maniera originale alle problematiche del territorio e con la capacità di farsi città cioè di inviare un messaggio oltre il riferimento locale.

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