L’analisi dell’omicidio di Avellino a cura della criminologa, psicologa e psicoterapeuta R.Francesca Capozza
Dovevano morire. Tutti e subito.
“Quando li uccidiamo”? Questa l’ossessione di Elena Gioia, 18 anni. Da tempo. Da troppo tempo. La sua famiglia, intera, doveva essere sterminata perché ostacolava la sua relazione con Giovanni Limata, 22enne. Si, il padre era contrario a questo rapporto con un pregiudicato con piccoli precedenti, tra cui aggressioni e minacce, anche alla stessa vittima, ma soprattutto da tempo tossicodipendente. E allora bisognava sterminarli. Questo pianificavano i 2 fidanzati. Doveva essere una strage per “liberarsi” e fuggire. Elena cercava il momento giusto. E questo momento sembrava essere arrivato. Avellino, 23 Aprile 2021. Sono le 23. Doveva sembrare una sera qualunque, con la mamma e la sorella già a letto. Doveva essere perfetto, il piano. Elena scende a riporre la spazzatura fuori al portone. È l’occasione per far entrare di soppiatto il fidanzato Giovanni che si nasconde in una stanza. Poi, insieme, raggiungono il salotto dove il padre, Aldo Gioia 53enne, si era addormentato sul divano guardando la tv. Il giovane, con un coltello da caccia, sferra senza esitare 14 coltellate al torace della vittima con una violenza feroce, inaudita. Ma il padre inaspettatamente urla dopo aver ricevuto la prima coltellata: un grido che sveglia la moglie Liana e l’altra figlia, Emilia, che dormivano ignare nelle loro stanze, rendendo così impossibile la conclusione della esecuzione premeditata. Elena inscena un tentativo di rapina, mentre Giovanni è già fuggito, diretto a rientrare a casa a Cervinara nel Beneventano. Sono state le due donne accorse in salotto, straziate dinanzi quella terrificante scena, a chiedere l’intervento della polizia e del 118. L’uomo trasportato d’urgenza in ospedale, spira poco dopo. Ma le tracce, le indagini degli inquirenti si chiudono immediatamente sui 2 fidanzatini. Per quella loro relazione così osteggiata dal padre e che era stata motivo di furibonde liti tra la figlia e il genitore, proprio come quella avvenuta poche ore prima del delitto.
Qualche giorno prima dell’omicidio, Limata chatta con una amica in un agghiacciante scambio di battute. Giovanni: «Venerdì sera sarò ad Avellino per una cosa […] E’ per via di una ragazza, mi ha chiesto di eliminare la sua famiglia». L’amica: «Perché le hanno fatto qualcosa? Se finisci nei guai non ci pensi a te?” Giovanni: «Se mi conoscessi sapresti anche che non mi è mai fregato un cazzo di me stesso». L’amica: «Questo lo so però non voglio che ti fai male così». Giovanni: «Non ho alternative». L’amica: “Se non o fai ci vai di mezzo tu?” Giovanni: «Così sembra. Quanto può essere brutto innamorarsi di una persona». Ciò che spaventa e lascia attoniti è rilevare come nel loro dialogo non vi sia alcuna minima constatazione della assoluta gravità del comportamento che si vuole attuare, né tantomeno della sofferenza delle vittime a cui si sarebbe voluto togliere la vita. Sia l’amica che il Limata sono unicamente centrati sul benessere, su e sulla tutela del Limata, sui suoi bisogni e sugli eventuali “rischi” che poteva subire, come se appunto l’“altro” non esistesse, non fosse riconosciuto mentalmente ed affettivamente nella sua presenza e connotazione di essere vivente.
“Odio tutta la mia famiglia”, avrebbe scritto lei. “Quando li uccidiamo?”, avrebbe risposto lui. E poi i dubbi su Emilia, la sorella, che “non può rimanere”. 120 pagine di messaggi in chat nei quali da 5 giorni i 2 killer pianificavano il compimento della strage. La sera del delitto i due hanno continuato a comunicare in chat, organizzandosi per preparare gli zaini per la fuga e progettando l’ingresso in casa di Limata, con la porta aperta e il cane di famiglia messo nelle condizioni di non agire.