Colletorto, pubblicato il primo vocabolario in dialetto scritto da Ubaldo Spina

Il commento dello storico Luigi Pizzuto:” Con quest’opera Ubaldo Spina recupera un patrimonio linguistico di immenso valore”


COLLETORTO. Cresce il panorama delle pubblicazioni nel campo della letteratura dialettale molisana. In questo caso, a perenne memoria, il libro fissa per sempre non poche voci scomparse. Regalando alle nuove generazioni il canto di una lingua vivacissima, ancora attuale, che ha tanto da insegnare. Il Dizionario del dialetto di Colletorto, scritto da Ubaldo Spina, dunque, ha il merito di recuperare un articolato patrimonio di cultura immateriale. Si presenta come una perla luminosissima nel panorama della cultura dialettale. Tale opera, data alle stampe all’inizio dell’estate 2021 dall’Editrice Lampo di Campobasso, è costituita da oltre quindicimila voci. Le filastrocche, le note letterarie, l’architettura del borgo, l’etimologia greca e latina, insomma i tanti “dicta”in essa contenuti, accendono una luce vivace su questo straordinario piccolo mondo linguistico.

La voce dialettale“u Palazzë”, ad esempio, con la lettera maiuscola, collegata alla residenza gentilizia più significativa del “Borgo degli Angioini”, diventa un toponimo ben preciso. Nella memoria collettiva, infatti, questo modus dicendi, ancora vivo sulla bocca dei parlanti, corrisponde all’androne o ad un angolo caratteristico presente all’interno del palazzo feudale, appartenente prima ai Gambacorta e poi all’illustre marchese Bartolomeo Rota.

La divisione in rioni del paese, invece, recupera le condizioni di vita degli abitanti con questo divertente paradigma: “I T’rrazzànë zë magn’në a tèrrë c’o panë, i Cullìscë zë còc’në u culë c’a jnìscë” (Gli abitanti del Rione Terra mangiano la terra col pane, quelli del Rione Colle si scottano il sedere sulla cenere ardente).

La locuzione avverbiale, infine, “Parlë ggerbë dom’në” (Parla in modo incomprensibile) ha radici profondamente latine: “In verbo Domini” (nella lingua del Signore). In questo caso la lingua popolare manipola un’espressione aulica latina, adattandola al linguaggio corrente per indicare chi non riesce o non vuole parlare in modo chiaro. Tra le tante voci inedite destano una particolare curiosità le varie modalità di sciuccà, nevicare, fioccare, dal latino floccare: p’léjë (nevica poco e a fiocchi sottili); sciocchë a ppìlë dë hàttë (nevica a fiocchi molto sottili come i peli del gatto); p’tt’léjë (nevica poco ma a fiocchi consistenti); scarcë e céngë, e ciangèllë (nevica a falde larghe e consistenti); sciocchë commë a Ddìjë sa fa (nevica abbondantemente); fl’pp’néjë (nevica in forma di tormenta); scta ngasciànnë, ha ngasciàtë (sta coprendo, ha coperto le cose); sciocchë e squagghjë (cade la neve ma subito si scioglie). Decisamente singolare, invece, la voce dialettale urr’ggì, parapiglia e incitamento al parapiglia. Deriva dall’inglese to urge. Il suo tono onomatopeico è ancora in uso. Si tratta di un neologismo coniato durante la 2^ Guerra mondiale quando gli Alleati, attraversando Colletorto, lanciavano cioccolata, sigarette ed altro gridando appunto to urge! Divertendosi, così, nel vedere ragazzi azzuffarsi nel prendere a denti stretti i generi lanciati. Da segnalare l’incipit dell’opera che coincide casualmente con il verbo “abbjà” (avviare).

Dulcis in fundo l’ultima parola è una voce onomatopeica: “zzurrjatë“ (l’atto del suonare alla meglio la fisarmonica). In definitiva Ubaldo Spina firma un vocabolario dove rivive il mondo di ieri, con tanti insegnamenti al mondo di oggi. Attento alle cose, all’ambiente, agli animali, ad un insetto che vola, ad un fiocco di neve che cade in tantissimi modi, al flusso del vento che sale, ad un bambino che gioca. Senza dimenticare l’attenzione ai comportamenti e alla vita dell’uomo, tra non pochi abbracci emotivi alla vita di oggi. Insomma il dialetto, come lingua del cuore. Come lingua madre che ognuno possiede dentro di sé. Migliore di qualunque altra lingua, il dialetto, col suo tono comunicativo, articola una vivace voglia di vivere. Magicamente le parole dialettali sono capaci di accendere una luce anche nei momenti più bui. A sua insaputa, in una dimensione che si perde tra le pieghe del tempo, l’individuo fabbrica, tra non pochi sguardi radicati nel suo sentire esistenziale, lo strumento più importante della vita quotidiana. Stranamente questo vocabolario ci fa parlare. Ci aiuta a vivere meglio. In positivo ci aiuta alla ricerca del tempo perduto. Stampa lo stato di appartenenza. Rianima appassionatamente l’orgoglio delle proprie origini. Tra gli spazi di tante metafore e detti trascritti spesso lo fa con il sorriso. Questo nuovo fresco di stampa, in definitiva, con le sue 474 pagine, appassiona senza fine chi ama le proprie radici.

Allora vale la pena leggerlo. Rileggerlo più volte. Per riempire il vuoto. Perchè qui il messaggio è forte. Sembra riascoltare il senso profondo e sottile delle riflessioni di Franco Arminio, dettate in “La cura dello sguardo”: “La lingua è una grande cura, la lingua entra negli organi, può mettere ordine nel corpo, può fermare la paura, può dare slancio alla gioia”. Il dialetto ha una funzione catartica. Ha il potere di rilanciare la stagione delle emozioni. Di coinvolgere l’io di tutti. Ogni dialetto è così.