La leggenda del Macerone: polvere e gloria da Girardengo a Bartali

Torna domani al Giro d’Italia il mitico valico a pochi chilometri da Isernia, un tempo temutissimo. Vi raccontiamo di questa grande storia di sport e di limiti, di imprese  e di crolli verticali: dalle fughe di ‘Ginettaccio’ a quella volta in cui Azzini andò in crisi proprio lì e venne ritrovato il giorno dopo in un fienile, in preda alla polmonite.


di Maurizio Cavaliere

Macerone ovvero grande macera, che è il muretto a secco. Sarebbe questa l’origine del nome del mitico valico subito dopo Isernia, direzione Abruzzi. In realtà per come ve lo presentiamo oggi, Macerone dà più l’idea di macero cioè di ciò che ha subìto un processo di macerazione. Mai sostantivo fu più azzeccato per associare quel colle allo sforzo fisico immane prodotto dagli atleti che quella terribile via, un tempo sterrata e verticale, affrontavano spesso al Giro d’Italia quando la corsa rosa era una miscela esplosiva di magia, polvere e leggenda.

Già, il mitico Macerone, un valico che con i suoi 684 metri di quota pare un bambino di fronte ai giganti alpini, ma che, così ripido e ‘stroncafiato’ nel suo incedere di tornanti e contro tornanti, ha fatto innumerevoli vittime sportive al Giro. Tra gli altri Coppi e Girardengo.
Rieccolo il colle dimenticato. Rieccolo nell’appassionata corsa a tappe che domani farà scalo a Isernia per l’attesa partenza di un tappone che si concluderà con l’ascesa al Blockhaus. 

Stavolta i ‘girini’ lo assaggeranno come antipasto leggero di un menu muscolare di salite e discese insidiose: da Rionero Sannitico a Roccaraso, da Passo Lanciano ai 1665 metri finali del Blockhaus sul versante Nord della Maiella. La nona tappa sa di ciclismo antico. 

Leggero, dicevamo, perché sarà la prima salita di giornata, a una schioppettata dalla partenza. Il Macerone non era presente nel percorso ufficializzato del Giro, poi è stato inserito a sorpresa forse come omaggio ai grandi del passato. 

Ma perché l’erta dimenticata di casa nostra era così temuta?

La leggenda parte da lontanissimo, più di un secolo fa: una storia forte, singolare, esaltante ed estrema.

Diciamo subito che il Giro d’Italia del 1914, il primo con la classifica a tempi, è considerato dagli appassionati come il più duro di sempre. La tappa forse più pazzesca di quella folle competizione si corse il 3 giugno. Era una Bari-L’Aquila per un totale assurdo di 428 chilometri. Quel giorno sullo spettrale valico subito dopo Isernia venne scritta una pagina di epica sportiva dove la storia diventa leggenda e non il contrario.

Premessa necessaria: al tempo le tappe partivano spesso di notte e si concludevano la notte successiva. Un giorno intero, come la famosa 24 ore di Le Mans (che sarebbe stata corsa per la prima volta 9 anni dopo), sostanziali però le differenze: al giro non c’era un circuito di 13 chilometri e si andava in bici, spesso in solitaria (anziché in auto e in due) su strade di ghiaia intervallate da pendenze inenarrabili. Quella edizione fu caratterizzata anche da errori di percorso e dai primi sabotaggi con chiodi buttati per strada.

Al traguardo vinse Luigi Lucotti (in 19 ore 20 minuti e 47 secondi, tempo di percorrenza di tappa più lungo nella storia del Giro!) e Alfonso Calzolari che poi si sarebbe laureato campione (nonostante la squalifica per essersi attaccato a un’auto in salita mentre percorreva l’altrettanto mitica salita ‘delle’ Svolte di Popoli) quel giorno si riprese la maglia rosa che, per una sola giornata, era andata sulle spalle di Giuseppe Azzini il quale si era aggiudicato le due tappe precedenti.

Il 3 giugno di 108 anni fa fu invece per Azzini l’ultima tappa di quel ‘Giro da tregenda’. Il ciclista milanese andò in crisi nera sul famigerato Macerone. Fu un momento di grave difficoltà, un calvario non solo sportivo. Il povero Azzini (che parteciperà ad altre 4 edizioni del Giro e morirà di tisi a soli 34 anni) venne ritrovato il mattino seguente in un granaio abruzzese, a Barisciano, in preda alla febbre e a una brutta polmonite poi riscontrata in ospedale. D’altronde in quel giro partirono in 81 e arrivarono in 8…. 

Eccolo spiegato alle origini il Macerone: spauracchio nell’epoca eroica del ciclismo, trappola di mostri sacri come Costante Girardengo, uno degli sconfitti di quel Giro d’Italia. Mecerone che, storicamente, è ricordato per la battaglia del 20 ottobre 1860, quando le truppe borboniche vennero sconfitte dal Corpo d’armata dell’esercito piemontese

Una strada battuta da un passato importante, insomma, sconvolta da combattimenti preunitari e poi animata da campioni sportivi le cui imprese o rovinose cadute si mischiano come carte di un mazzo logorato dall’uso. Il Macerone è stato un crocevia di traversate, viaggi, sport e vita, emblema di un passato  sfocato.

Sul colle isernino transitavano i corridori dei primi decenni del Giro, spesso indirizzati sull’asse Chieti-Roccaraso-Isernia-Napoli, in un senso o nell’altro. Gran parte delle attese degli appassionati erano per le ascese di Rionero Sannitico e del Macerone, appunto.

Da brividi anche il passaggio del Giro del 1921 quando Costante Girardengo si arrese per la prima volta proprio lì, ai quasi 700 metri della ‘grande macera’. Girardengo era il numero uno, aveva vinto tutte le tappe (quattro su quattro) ed era dato in condizioni di forma sbalorditive. Quel giorno però, in una lunga Chieti-Napoli cadde quasi all’inizio, poco prima di affrontare la breve ma intensa salita dell’Appennino sannita che collega le alte valli dei torrenti Cavaliere e Vandra, affluenti del Volturno. 

Devastato da fratture e dolori si rimise in sella ma dovette fermarsi proprio sul famigerato, ripido valico. Scese dalla bici che era pronto al ritiro, ma provò a ripartire. Corse altri quaranta chilometri a denti stretti per provare a lenire le pene dell’inferno in cui era finito. Arrivato sull’Altopiano delle Cinquemiglia, sopra Roccaraso, si arrese definitivamente. Stremato e avvilito gettò la bicicletta per terra e disegnò una croce con in piede sulla ghiaia, dicendo: “Girardengo si ferma qui”. Magari l’enfasi della narrazione postuma avrà portato ad attribuirgli parole che forse non pronunciò, chissà. Ma la sostanza non cambia: il gesto fu quello e il suo ritiro avvenne proprio lì, poco dopo aver scalato il colle più temuto tra quelli più bassi del Giro, quell’erta innominabile che un paio di decenni dopo avrebbe visto rivaleggiare per la prima volta i grandissimi Bartali e Coppi.

Sì, Bartali, il mitico campione della Legnano che pose sul Macerone un importante mattoncino nella costruzione del suo primo Giro d’Italia. Siamo nel maggio del 1936 e il mitico ciclista toscano scattò in fuga sulla ‘tosta’ salita molisana. Alla fine di quella tappa (Campobasso-L’Aquila) accumulò un vantaggio siderale sugli avversari e conquistò la prima maglia rosa che poi non tolse più. Quella del ’36 fu una splendida avventura per lo schietto rivale di Coppi. Sul Macerone i due si confrontarono spesso. Nel Giro del 1946, il primo del dopoguerra, Bartali inflisse un distacco di 4 minuti all’Airone’. La tappa era una Chieti-Napoli che fu vinta da Mario Ricci mentre la maglia rosa passò da Fermo Camellini a Vito Ortelli. Quest’ultimo venne scalzato dalla leadership generale a sei tappe dal termine. A strappargliela fu sempre lui: ‘Ginettaccio’ Bartali che, tra le altre imprese, resterà nella leggenda come uno dei ‘re’ del Macerone.

E chissà che domani la prima fuga non avvenga proprio lassù, in onore di quegli uomini che, con le loro pesanti biciclette di ferro, spesso soli nella polvere, parevano più eroi di un’odissea di lividi e sudore che campioni dello sport. Una storia da ricordare e forse da riscrivere quella del valico del Macerone, riaperto al traffico nel 2019 dopo che una frana ne aveva sfregiato il profilo. I pionieri delle due ruote guardano il Giro dall’alto ora ma, a quanto pare, c’è ancora strada da percorrere: salendo, in piano o in discesa, purché si vada sempre avanti, che sia ghiaia o asfalto.