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Auto parcheggiata con la fotocopia a colori di un contrassegno per gli invalidi: condannata

L’accusa è uso di atto falso. La sentenza


ROMA. Viene punita l’esposizione sul parabrezza di una vettura della una fotocopia dell’originale del contrassegno per il parcheggio invalidi, e a nulla è valso evidenziare che la sosta illegittima era stata causata da una situazione contingente e di durata limitata.

I Giudici della Cassazione hanno convalidato la condanna ad una conducente che era stata sorpresa a fare uso di un falso contrassegno per il parcheggio invalidi, in violazione dell’articolo 489 c.p.

IL CASO

Una Corte d’Appello aveva confermato la decisione di primo grado che aveva condannato alla pena di giustizia una signora, avendola ritenuta responsabile del reato di cui all’art. 489 c.p., per avere fatto uso di un falso contrassegno per il parcheggio invalidi.

Nell’interesse dell’imputata il difensore ha deciso di proporre ricorso per cassazione, affidandosi a due motivi.

Con il primo motivo è stata lamentata inosservanza ed erronea applicazione dell’art.489 c.p., rilevando:

a) che il contrassegno era realmente esistente e che la copia, comunque grossolana, a disposizione dell’imputata era stata utilizzata poiché non sempre lo stesso parente accompagnava la titolare del permesso, ossia la nonna dell’imputata, a fare le visite;

b) che, in ogni caso, l’imputata si era semplicemente recata all’interno del negozio dove lavorava per prendere le chiavi del portone e condurre il veicolo nel palazzo dove abitava.

Con il secondo motivo si è lamentata la mancata applicazione dell’art. 131-bis c.p.

Il Procuratore Generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Cosa ha detto la corte di cassazione

Cass. Pen. sez. IV, ud. 10 febbraio 2022 (dep. 16 maggio 2022), n. 19189

Gli Ermellini hanno considerato il primo motivo di ricorso inammissibile per manifesta infondatezza e assenza di specificità, in quanto, per un verso, insisteva nella tesi della grossolanità del falso, razionalmente esclusa dai giudici di merito alla luce della stessa necessità di esami strumentali di verifica (e ciò senza dire che, anche seguendo il ricorso, alcuni indicatori sospetti erano emersi solo quando gli operanti avevano potuto esaminare direttamente il documento loro esibito dalla donna da loro successivamente rintracciata) e, dall’altro, riproponeva la tesi dei motivi contingenti del parcheggio, altrimenti non consentito nella zona all’imputata, laddove i primi erano del tutto irrilevanti, una volta che sia stato fatto uso del documento falso.

I Giudici della Suprema Corte, poi, hanno ritenuto inammissibile per assenza di specificità anche il secondo motivo, dal momento che, come osservato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una valutazione complessa, che ha ad oggetto le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, c.p., richiedendosi una equilibrata considerazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta che tenesse conto anche del grado di colpevolezza desumibile dalle modalità della condotta e dell’entità del danno o del pericolo arrecato alla persona offesa e non solo di quelle che attengono all’entità dell’aggressione del bene giuridico protetto (Sez. Unite, n. 13681 del 25/2/2016, Rv. 266590).

In tale cornice normativa, del tutto razionale era stata la valutazione espressa dalla Corte territoriale, quanto alla non particolare tenuità del fatto.

I Giudici di Piazza Cavour alla pronuncia di inammissibilità hanno fatto conseguire, ex art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, è apparso equo determinare in euro 3.000,00.

Domenico Carola (Osservatorio del Codice della Strada Il Sole 24 Ore)

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