Straordinario successo all’auditorium per il musical firmato da Alessandro Di Zio e Giò Di Tonno, in scena con i compagni di sempre Vittorio Matteucci e Graziano Galatone: standing ovation per il ‘golden trio’


di Pietro Ranieri

ISERNIA. Sabato 2 novembre, ore 20:30 circa. La tela è aperta sul palco dell’auditorium ’10 settembre 1943′ quando si entra in sala. La scenografia è visibile, davanti agli occhi del pubblico. Poi improvvisamente tutto si anima, mentre gli spettatori prendono posto. E in pochi minuti accade una magia improvvisa, inaspettata e straordinaria: la letteratura, l’arte, la poesia, la musica, rompono la quarta parte e infrangono il quotidiano, la routine, il tran tran. Come ne ‘I Limoni’ di Montale, la bellezza si nasconde in ogni sprazzo, in ogni angolo del mondo, che sia il cortile di un casolare o la pagina di un libro che ci avvince, inesorabile.

Così Isernia ha visto nascere un nuovo ‘istant classic’ del teatro italiano, uno di quelli di cui si parlerà di certo per anni a venire. Con un’idea di regia geniale, affidata a Giuliano Peparini. Un sogno di Giò Di Tonno, con testi di Alessandro Di Zio: ‘I Tre Moschettieri – opera pop’ con musica, prosa e danza dà nuova vita al capolavoro di Alexandre Dumas. Un racconto coinvolgente ed emozionante, in un intreccio tra le coreografie  di Veronica Peparini e Andreas Muller e le musiche scritte proprio Di Tonno, che ha curato anche gli arrangiamenti insieme a Giancarlo Di Maria – suo il lavoro sulle orchestrazioni. E per dare vita ad Athos, Porthos e Aramis il cantautore pescarese non può che scegliere accanto a lui i compagni di sempre: Vittorio Matteucci e Graziano Galatone. Con loro, un cast giovanissimo di talenti straordinari, quasi commoventi nella loro purezza, interpreti e corpo di ballo, nuovi astri nascenti del musical italiano. E che musical: in questo spettacolo confluiscono decenni di esperienza e di arte, appresa e ben messa in opera non solo da Di Tonno ma dall’intero gruppo. A livello attoriale, certo, ma soprattutto strutturale, ontologico perfino.

Andiamo per gradi. Non era facile trasportare in scena le atmosfere e gli sviluppi di un romanzo avventuroso come questo, ma gli autori riescono nell’impresa – oltre che con un sapiente lavoro di riduzione e adattamento – introducendo in scena proprio il narratore-personaggio Dumas, che fa da importante raccordo e occhio vigile sugli attori in scena, legando con mestiere tra loro i momenti più distanti. Non ci si può distrarre, perché l’opera è densissima: ma Roberto Rossetti – volto e voce del romanziere francese – fa un lavoro straordinario creando un ideale ‘ponte’ tra il testo, la scena e il pubblico, accompagnato con maestria e dolcezza nella storia, negli intrighi di corte e nelle vacuità del potere, quasi deriso e sbeffeggiato. Perfino nelle figure iconiche del re e della regina di Francia, praticamente dei burattini nelle mani dei loro veri padroni.

Il potere, si: non solo quello temporale, ma anche spirituale, che non s’intende solo come supremazia della casta religiosa, ma proprio come quella dello spirito sulla materia – un’apparenza, presto svelata dallo stesso Cardinale Richelieu. Un cattivo magnifico, tridimensionale, da un lato sinceramente preoccupato per le sorti del suo Paese, dall’altro roso dalla bramosia di controllo e comando, che emerge completamente nell’imponente interpretazione di Cristian Mini (una delle coreografie – e anche degli arrangiamenti, con il tempo che sembra iniziare in due per poi declinarsi vocalmente in tre – più impressionanti è proprio su una scena che lo vede protagonista). Una fame dell’anima che attanaglia anche l’altra grande ‘villain’, Milady, che prende vita con Camilla Rinaldi: fin dalla sua entrata in scena, nel confessionale con Richelieu di cui è la spia più importante, è chiaro il taglio maiuscolo che la giovane attrice ha inferto al personaggio. Sensuale al limite del proibito, fredda, calcolatrice, vendicativa: un crescendo, che esplode poi nel secondo atto, prima in un duetto clamoroso e poi in uno straziante climax finale. A completare il trittico c’è il capitano delle guardie del cardinale, Rochefort. A portarlo in scena è Leonardo Di Minno, con tutta la fisicità e la forza di cui è capace. Qui, oltre al timbro baritonale, sono gli sguardi taglienti e maniacali a far capire di cosa stiamo parlando: non un semplice cane da guardia, ma un lupo, un capobranco, un violento – che permette anche di osservare dipanarsi in scena proprio quella stessa violenza con l’occhio della catarsi, esattamente come accade nel grande teatro classico, e di viverla, esorcizzarla, comprenderla perfino.

A contraltare del grande male, c’è però sempre il bene: c’è – come c’insegna Tolkien – il buono che questo mondo ha da offrire, c’è l’amicizia. Simbolo ne sono i moschettieri, certo: ma anche il giovane Planchet, amico – e servitore, nel romanzo originale – di D’Artagnan. Un camaleontico e funambolico Gabriele Beddoni, capace di contorsionismi fisici e vocali strepitosi, una presenza buffa ma al tempo stesso rassicurante e confortante. L’affetto tra i due nasce dopo che il protagonista gli salva la vita, e l’indissolubile legame nato dall’onore e dalla gioventù diviene centrale nello sviluppo della trama. Ed è realmente un’amicizia tra guasconi, riportata in scena magnificamente tra complicità, scherzi e momenti solenni. Soprattutto è proprio Planchet che spinge D’Artagnan tra le braccia della giovane Costanza, dama di corte della regina Anna. Straordinario il lavoro che hanno fatto Giovanni Maresca, che interpreta il cadetto moschettiere, e Beatrice Blaskovic. L’altra grande luce che brilla in scena è infatti proprio questo amore, tenero, puro, ma assediato su tutti i fronti dai nemici di Francia e dei due giovani. Le capacità attoriali degli interpreti rendono giustizia a questa dinamica e strappano più di una lacrima agli spettatori, con momenti di delicato romanticismo e di struggente realismo. C’è solo da dire: conservate i fazzoletti per le scene finali.

D’Artagnan però non è solo un tenero amante: è anche, e soprattutto, un cadetto moschettiere, un ardito ma onorevole attacabrighe, la cui figura vive all’ombra del mito dei più famosi guerrieri di Francia: Athos, Porthos e Aramis. Il ‘golden trio’ combatte con “incredibile audacia”, come nella famosissima scena finale del film La Maschera Di Ferro, una lotta quasi archetipica, raccontando di coraggio, onore, fedeltà, onestà. Quelle virtù che i tre moschettieri sono pronti a difendere in punta di fioretto – e attenzione, perché in scena è tutto vero: anche le spade! I duelli sono stati coordinati dal maestro d’armi Renzo Musimeci Greco – perché per l’onestà e per l’amicizia si può e si deve combattere.

Di Tonno, Matteucci e Galatone sono, in scena e fuori, il trionfo dell’amicizia. Sono emozionati, e si vede, ma non è mai un male. La loro alchimia magica emerge tutta, in ogni scena dove sono protagonisti. Fondamentale il momento in cui si sugella tra i quattro compagni il proverbiale motto: “Tutti per uno, uno per tutti!”, un patto che è anche una promessa, un significato, una di quelle cose in cui o credi o non credi, senza mezze misure. E loro sono capaci di portartici dentro, di farti sentire che o si vive seguendo quel credo, o si muore. Di Tonno costruisce un personaggio dalla grande gravitas, che – come nel romanzo – nasconde dietro freddezza e spavalderia un animo tormentato e profondi dolori. Matteucci omaggia straordinariamente il Porthos di Gerard Depardieu, lo fa suo, lo trasforma in una maschera guascona irresistibile a cui non si può non voler bene fin da subito – un effetto straniante, anche, abituati a vederlo ricoprire spesso ruoli da cattivo. Galatone coglie invece lo spirito sognante ed equilibrato di Aramis, il “prete mancato” che però riversa la sua fede negli amici e nella sua missione, un nobiluomo fatto e finito che non disdegna i piaceri della carne e del buon vino con gli amici. Insomma, insieme sono una forza della natura, una meraviglia da ascoltare e vedere in scena grazie anche agli stupendi costumi realizzati per lo spettacolo, prodotto da Stefano Francioni e dal Teatro Stabile d’Abruzzo diretto da Giorgio Pasotti.

Quella a Isernia è stata una prima nazionale per uno spettacolo che, senza dubbio, è destinato a sbancare ovunque. Andatelo a vedere: passerete quasi tre ore in un’altra dimensione, e uscirete felici, riempiti di energie nuove, lieti di esservi abbandonati al potere rigenerante del teatro, quello vero, quello vivo.

LA GALLERY A CURA DI PINO MANOCCHIO