Il testo di Carmen Sepede, che racconta il delitto Matteotti, ha vinto il premio Flaiano ed è, sempre di più, una storia necessaria per la contemporaneità


di Pietro Ranieri

CAMPOBASSO. Ha un senso tutto particolare trovarsi a teatro per un testo dedicato alla figura di Giacomo Matteotti proprio all’indomani delle elezioni americane che hanno riconsegnato ‘la più grande democrazia del mondo’ a uno dei più illustri rappresentanti della destra populista e nazionalista. Un racconto straordinariamente contemporaneo, quello che l’autrice e collega Carmen Sepede – vincitrice, tra l’altro, del premio Flaiano – mette in scena, grazie a un cast ispirato e a una regia convincente. Ne emerge tutto il dramma non solo del fascismo, ma dei limiti della democrazia quando viene forzatamente compressa, distorta e artefatta.

Parte così, col botto, la stagione teatrale al ‘Savoia’ di Campobasso: con ‘Il mio nome è Tempesta. Il delitto Matteotti’. In scena Diego Florio, Marco Caldoro, Domenico Florio, Paolo Ricchi e Mauro D’Amico ripercorrono i passi di ‘Tempesta’ quando, appena dieci giorni prima del rapimento, il 30 maggio 1924, nel suo celebre intervento alla Camera dei Deputati, aveva attaccato duramente Benito Mussolini, denunciando i brogli elettorali, le intimidazioni e i pestaggi che avevano caratterizzato le votazioni del 6 aprile 1924, che avevano portato al potere il Partito fascista, arrivando a chiedere l’annullamento delle votazioni.

Una contrapposizione necessaria, quella non solo tra Matteotti e il Duce – che era rimasto ad ascoltarlo con sguardo truce nell’aula di Montecitorio senza pronunciare una parola – ma tra due diverse visioni del mondo, diametralmente opposte. Da un lato l’idea che lo Stato fosse uno strumento, una mera struttura sotto la quale nascondere e tramite la quale poter giustificare le peggiori nefandezze, arrivando – ironicamente, con l’utilizzo dei suoi stessi strumenti democratici – a sostituirne completamente l’essenza con un partito, prima, e una persona sola, poi, in una sorta di ritorno ai sovrani assoluti dell’Ancien Régime. Dall’altro lato, la consapevolezza di essere servitori e sottoposti di quello stesso Stato, che era fatto, prima di ogni altra cosa, dai cittadini, dalle loro libere singolarità che insieme formavano il tutto, e la ferma certezza che per difendere questo principio fosse giusto e necessario esporsi, combattere, perfino morire.

Intorno ai due massimi competitors, Mussolini e Matteotti, due umanità, quella della maggioranza e quella dell’opposizione si fronteggiano e si sfidano, incrociando trame di palazzo a strategie parlamentari. Una scrittura, come spesso si è detto, a metà tra il noir, la spy story e il giallo, ma che ricostruisce in maniera sincretica anche quelle due Weltanschauung così distanti tramite un attento e meticoloso lavoro sui documenti storici. C’è infatti tutto il sottobosco dell’affaire Sinclair Oil, e delle presunte tangenti pagate dalla compagnia americana per ottenere la concessione delle trivellazioni petrolifere in Italia. Una vicenda che chiamava in causa il fratello del Duce, Arnaldo Mussolini e, secondo alcuni storici, anche il Re Vittorio Emanuele III: “Se questa cosa viene fuori, qui salta tutto”, continuano a ripetere i comprimari durante lo spettacolo, davanti alla fredda indifferenza del Duce e alla consapevolezza di avere ormai l’Italia, e gli italiani, alla sua mercé. Del resto, “è tra scroscianti applausi che muore la democrazia” (e mi si perdonerà la citazione ‘nerd’, ma calzante, direttamente da Star Wars).

Un’arroganza politica e umana straordinariamente attuale, ancora oggi, cento anni dopo quelle violenze, quegli omicidi e quei brogli. Che ‘Il mio nome è Tempesta’ ci aiuta a mettere a fuoco, a riconoscere, nella speranza di scatenare l’orgoglio necessario a debellarla.