Uccidere per non soffrire

L’analisi del ‘family mass murder’ di Romallo, in Val di Non   


di Francesca Capozza*

Romallo, in Val di Non. Spari in una notte di inizio agosto squarciano il silenzio di un paesino dormiente. E’ una strage. Una strage familiare. Un family mass murder che finisce a colpi di pistola Giampietro e Adriana, di 79 e 72 anni ed il figlio David Pancheri di 45 anni. La scena del crimine che si trovano dinanzi i Carabinieri appare chiara nella tragicità umana che l’ha sottesa. David ha sparato nel sonno i suoi genitori, poi è tornato nella sua stanza ed ha rivolto un ultimo colpo alla sua tempia. Accanto a lui, un biglietto che, insieme alle scuse ai parenti, metteva nero su bianco il dolore che rabbuiava la sua anima: “Troppa sofferenza…Moriremo tutti e tre insieme”.

Le motivazioni del gesto le troviamo nella storia familiare di David, un ragazzo taciturno, ormai diventato uomo, visto sempre e solo in compagnia degli anziani genitori. La risposta è nel loro intenso legame, al limite del simbiotico per cui David non poteva immaginare una vita in cui un figlio, ad un cero punto del proprio percorso di vita, si emancipa emotivamente e psicologicamente dalla famiglia di origine, portando a compimento il necessario processo di individuazione caratteristico del ciclo di vita familiare. Vive con i genitori a Milano ed ogni anno va insieme a loro in villeggiatura in Trentino, nel paese natio del padre. La madre soffriva però di depressione, una malattia che David ha esperito nella sua crescita nel suo rapporto con questa vitale figura genitoriale, inducendolo a vivere sensazioni ed emozioni confuse, contrastanti, ma confluenti nella strutturazione di un legame di dipendenza psicologica in cui cercava di lenire la sua sofferenza ed i possibili sensi di colpa per il dolore della madre, che da bambino non comprendeva, legandosi ancor più ad essa. La recentissima scoperta della diagnosi di tumore del padre, lo getta nello sconforto assoluto. Si sente impotente, smarrito, teme di perdere nella malattia, nella sofferenza, nel progredire della vecchiaia, i suoi unici punti di riferimento. Non vede altre strade, non vive speranza, non ha fiducia in se stesso, la stima di sé appare bassa perché si sente inutile, privo di valore, senza i suoi genitori la cui presenza ed esistenza sente divenire sempre più a rischio. A nulla valgono le rassicurazioni di chi cerca di infondere coraggio e speranza, poiché non sono sentimenti che albergano in lui. Non ha potuto costruire nel corso del suo sviluppo le cosiddette life skills, le competenze psicosociali di vita e la capacità di resilienza cruciali nel fronteggiamento delle sfide della vita quotidiana.
Il senso di impotenza di fronte al passare degli anni, nel vedere i genitori sempre più anziani e malati, la disperazione nel percepire l’idea di una personale vita “al di là” dei propri genitori, sembrano essere stati i principali elementi soverchianti la sua psiche. Piomba inaspettato, pochi giorni prima, quello che sarà l’evento scatenante: la scoperta della malattia del padre. E’ la goccia che fa traboccare il vaso. “Non ha retto al dolore di sapere che il papà era ammalato e probabilmente era consapevole che anche la mamma non sarebbe riuscita a superare quel dolore”, dirà una amica di famiglia. Si fa lentamente strada in lui l’idea che la soluzione sia una sola, affinchè suo padre non soffra e per salvare la madre da questo ulteriore dolore che non avrebbe sopportato, ma forse soprattutto per rifiutare l’idea di una prossima vita senza i suoi genitori.

La sua visione è a tunnel, vive i suoi giorni polarizzandosi su un unico pensiero, quello finale, quello definitivo, quello stragista. In criminologia, questo tipo di omicidio-suicidio familiare assume i connotati di una strage familiare per motivazioni ‘altruistiche’, lo Staged domestic homicide (omicidio premeditato e pianificato) in cui l’autore, al contempo vittima, non ha visione del futuro, tutto finisce quel giorno in quel momento della strage, non prevede un piano di fuga in quanto ha la volontà di morire anch’egli nell’azione per suicidio. Si parla quindi, nella classificazione di West, di “suicide elargie” (suicidi allargati per altruismo) in cui gli autori arrivano a un punto in cui credono che non c’è più nulla da fare, una via di scampo, la vita è vista attraverso una patina grigia che ottenebra la capacità di giudizio per cui tristezza/malinconia, delirio, impulsività, disperazione, paura, irritabilità e disorganizzazione invadono la mente ed il cuore dell’autore che vede la sua unica soluzione nell’ “agire” auto ed etero lesivamente la propria sofferenza, realizzando quindi un suicidio allargato. In ogni comportamento stragista è importante sottolineare che sono sottese patologie di natura psichiatrica o psicologica, es. depressione maggiore.

Soffermiamoci infine sul contesto di ritrovamento delle vittime. La scena del crimine parla sempre. La scelta dell’arma (facilmente reperita da David in quanto regolarmente detenuta, insieme ad altre armi, dal padre cacciatore), delle parti del corpo alle quali attingere le vittime (la testa), il tempo dell’uccisione (nel cuore della notte), il bigliettino ritrovato, ci parlano di un uomo che ha cercato di portare a compimento il suo piano disperato nella maniera più veloce e “meno dolorosa” possibile, sicuro cioè di una morte rapida ed inaspettata, come ultimo omaggio alla delicatezza di un legame psicoaffettivo esperito forte e totalizzante.

*Criminologa, psicologa, psicoeterapeuta

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