HomeNotizieCULTURA & SPETTACOLIJason Hickel parla di 'economia del dopo-crisi' a Poietika 2019

Jason Hickel parla di ‘economia del dopo-crisi’ a Poietika 2019

“Il 70% degli Europei vuole un’economia più lenta e sostenibile”: così l’autore durante l’incontro a Campobasso


di Giovanni Petta

La idee di Jason Hickel ribaltano quanto sostenuto per decenni da economisti e politici sul perché del divario tra ricchi e poveri della Terra. Hanno voluto farci credere che tutto era dovuto alle difficoltà interne dei Paesi più poveri. L’antropologo swazilandese, al Savoia di Campobasso per il quinto incontro di Poietika, dice che non è così e lo fa con argomentazioni che – meno male – sono sempre più difficilmente attaccabili con lo snobismo dell’aggettivo “ingenuo”.

Si comincia con il contrastare quanto afferma la narrativa dominante sulla positività della globalizzazione. Hickel dice che, da quando è in atto il fenomeno che caratterizza la nostra contemporaneità, la differenza di reddito tra ricchi e poveri è quadruplicata e il numero dei poveri è aumentato. Una decina di persone sono in possesso, oggi, della stessa ricchezza che ha la metà più povera del Pianeta.

E non è giusto parlare in termini relativi: non è importante che la percentuale dei poveri sia diminuita, nonostante l’aumento del numero assoluto, perché non è possibile immaginare una Umanità felice sapendo che un miliardo di persone vive con meno di due dollari al giorno e più di quattro miliardi di esseri umani sono al di sotto degli otto dollari al giorno. Il 60% dell’umanità non riesce a soddisfare le necessità primarie e non per mancanza di risorse. La causa è nella ingiusta distribuzione della ricchezza.

Il problema ha avuto origine con il Colonialismo e, successivamente, con la Rivoluzione industriale. Dopo il colonialismo, alla metà del secolo scorso – spiega Hickel -, c’è stato un periodo di forte crescita dei Paesi più poveri. Tale fenomeno è stato bloccato dalle multinazionali e solo i Paesi che hanno rifiutato le politiche del Fondo Monetario e della Banca Mondiale hanno potuto, a modo loro, proseguire nella crescita economica.

I Paesi ricchi, che nel corso della storia hanno difeso i loro prodotti e si sono indebitati per investire nello sviluppo, ritengono ora che tali politiche siano sbagliate e che i Paesi poveri non debbano adottarle. Vogliono che non si faccia ciò che ha permesso loro di diventare forti da un punto di vista economico, che si mettano in atto quelle politiche che sono state alla base della loro crescita economica.

Le multinazionali, inoltre, vogliono che i Paesi poveri crescano, così da poter avere mercati più vasti, ma, nello stesso tempo, impediscono che crescano le industrie locali perché potrebbero entrare in competizione con le loro produzioni.

Hickel, tuttavia, non dà solo una visione apocalittica. La sua narrazione del passato è solo il punto di partenza, l’analisi necessaria per cambiare il nostro modo di pensare e di vivere. Nei prossimi anni dobbiamo impegnarci a fare quattro cose: 1) democratizzare l’Organizzazione mondiale del commercio e il Fondo monetario internazionale; 2) istituire un salario minimo globale; 3) dare meno importanza al Pil; 4) investire nell’agricoltura rigenerativa.

Queste cose sono possibili perché il 70% degli europei e circa la stessa percentuale di statunitensi vuole una economia meno concentrata sulla crescita e più attenta allo stare bene personale e del Pianeta. Siamo pronti, insomma, rallentare un po’ per stare meglio. Sono i politici e gli organismi decisionali a non essere pronti e a non volere una rivoluzione del genere.

L’antropologo, insomma, spera che l’opinione pubblica cominci a mettere in dubbio la storia fin qui raccontata dello sviluppo e del progresso del mondo. Spera che impari a ritenere praticabili e a non considerare più come ingenue le teorie di una solidarietà umana necessaria; necessaria non alla soddisfazione buonista delle proprie coscienze ma alla salvezza del Pianeta.  

Nell’incontro di ieri – altro successo per lo splendido percorso di Poietika – il pensiero di Hickel, nonostante la traduzione edulcorata e morbida e lo spazio ridotto per la sua esplicitazione, è risultato forte e argomentato. È passata, insomma, la necessità di rivedere il nostro stare al mondo.

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