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Il medico molisano che usò dei bambini come cavie

di Alessandra Gioielli

Nell’estate del 1847, un’epidemia di tifo colpì gli abitanti delle aree di confine fra Campania, Molise e Puglia, e il dottor Giuseppe M. Carusi (1814-1892) di Baselice, località che ha fatto parte del Molise per mezzo secolo (dal 1811 al 1861), venne inviato in quelle zone per prestare soccorso medico. In tale frangente, Carusi ricevette una circolare ministeriale che intendeva conoscere «se la tarantola pugliese sia o pur no velenosa; e se, mordendo l’uomo, vada questi soggetto a quella famosa malattia, detta tarantismo».

Il medico baselicese già se ne stava occupando, pure attraverso esperimenti; così, per dare risposta alla circolare, decise di approfondire l’analisi dell’aracnidismo. Gli appunti di tali osservazioni furono da lui inclusi in una Memoria intitolata “Della tarantola e del tarantismo” (pubblicata a Napoli nel 1848) e incentrata sulla lycosa tarantula. Egli descrisse le caratteristiche anatomiche di tale ragno e si soffermò sul suo «apparecchio venefico»; inoltre, dissertò di scorpioni, vipere, api, vespe, scolopendre e calabroni, talvolta con fuggevoli accenni, talaltra con pertinenti osservazioni scientifiche. La sua trattazione s’incentrò, poi, sugli effetti della puntura della tarantola, dapprima in veste teorica, poi in chiave empirica. Per ottenere risultati sperimentali, Carusi non si fece scrupolo d’utilizzare cavie umane e – in modo assurdo, anzi folle – ricorse a tre bambini «di cinque anni circa» che rispondevano ai nomi di Biagio Corvito, Nicola Paoletti e Tommaso Valente.

Leggendo la menzionata Memoria, si apprende che il medico di Baselice, la mattina del 10 settembre 1847, dopo aver ricevuto «da Lucera tre falangi racchiusi in appropriati tubi», fece mordere «l’avambraccio de’ tre nominati fanciulli». Per nulla preoccupato dei pericoli a cui li aveva sottoposti (basti pensare alla possibilità di fatali shock anafilattici), Carusi si compiacque di scoprire che i bambini, «durante l’azione venefica del falangio», restavano indifferenti «a’ diversi accordi di svariati stromenti musicali». In pratica, si sentì soddisfatto d’aver constatato che in loro non si riscontrava la frenesia coreutico-musicale tipica del tarantismo. Testimoniò che nessun bisogno di danzare o di ascoltare musica si manifestò nei fanciullini. La circostanza lo coinvolse così tanto che ripeté l’esperimento «in mille guise con falangi sannitici e pugliesi, non esclusi i tarantini, su ragazzi, su giovani maschi e femmine».

 

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