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Pochi tamponi e test sierologici dubbi: la lentezza delle regioni rischia di riportarci in Fase 1

Finora solo Lazio, Liguria, Emilia-Romagna e Veneto hanno autorizzato i prelievi per la cittadinanza. Eppure gli esami sono cruciali per gestire la fase due


Quello dei test sierologici rischia di diventare l’ennesimo punto debole nella gestione dell’emergenza coronavirus da parte dello Stato e nello stesso tempo occasione di business incontrollato per numerose aziende e cliniche private che, approfittando della lentezza del servizio sanitario, hanno già stabilito in alcuni casi prezzi superiori rispetto agli standard. Tra le regioni che finora hanno attivato questi test cruciali per la Fase 2, figurano solo Lazio, Liguria Emilia-Romagna e Veneto. Tutte le atre sono in notevole ritardo.

Parte dalla vicenda del biologo ed imprenditore lombardo Marino Marchisio, l’inchiesta del Corriere della Sera, a firma di Federico Fubini, che mette in evidenza le anomalie che regnano intorno ai test sierologici, fondamentali per capire chi ha già una protezione da anticorpi contro il virus e può tornare al lavoro.
Marchisio già dallo scorso Aprile ha sviluppato con la sua azienda, la Diapro di Sesto San Giovanni, un test sierologico basato sul metodo Elisa, in grado di rilevare con una precisione superiore al 98% se una persona è o è stata in contatto con Sars-CoV-2. Da allora la Diapro ha prodotto poco meno di un milione di kit, li ha distribuiti in Spagna, Germania, Gran Bretagna, Francia, Brasile e Iran, ma solo una piccola parte in Italia. Il perché lo ha spiegato lui stesso al Corsera: “Non abbiamo avuto molti riscontri commerciali” – ha ammesso.

 Un kit per test come quello della sua azienda somiglia a una piastra di plastica che sta in una mano, punteggiata da 96 incavi. Ognuno dei pozzetti permette di verificare su una persona diversa se l’organismo ha sviluppato anticorpi che derivano da un contatto avvenuto in passato con il virus (immunoglobulina Igg) o in corso (Igm). Il costo di produzione del kit varia da 2,5 a 5 euro, ai quali va aggiunto un margine lordo dell’azienda che non supera mai il 20%. Dunque il materiale più avanzato per capire se una persona ha anticorpi contro il coronavirus costa, ai cancelli della fabbrica, sei o sette centesimi di euro. Alle porte delle cliniche che forniscono il servizio, il prezzo richiesto in questi giorni varia fra i 30 e i 150 euro. E spesso la qualità è inferiore a quelli dei prodotti migliori. Non sempre le richieste sono predatorie, anzi per i test affidabili come quelli della Diapro e di altre concorrenti europee è quasi inevitabile pagare circa 40 euro. Lino Reverberi della Alifax di Padova, una multinazionale che produce e distribuisce materiali diagnostici, osserva che nel costo finale dei kit migliori sono integrati oneri diversi. Una clinica può spendere fino a 50 mila euro per avere in comodato d’uso i macchinari per esami di qualità. E l’intera filiera ha imparato a proteggersi dal rischio dei ritardi di pagamento della sanità pubblica alzando i prezzi.

La vicenda dei test sierologici oggi in Italia resta una storia di nuove diseguaglianze e di cliniche che approfittano fin troppo della lentezza e latitanza dello Stato. Finora solo Lazio, Liguria, Emilia-Romagna e Veneto hanno autorizzato le procedure per la cittadinanza. Questi esami sono preziosi per capire chi ha già una protezione di anticorpi e può dunque tornare al lavoro e alla vita di prima. Ma non tutti, imprese o comuni cittadini, possono permetterselo allo stesso modo. I kit della Protezione civile forniti dalla americana Abbott ancora non sono disponibili e una prima verifica nelle quattro regioni fa intravedere una giungla di prezzi, qualità e condizioni diverse. Solo in Emilia-Romagna i laboratori chiedono una prescrizione medica e la Fondazione Iret di Bologna — uno dei centri accreditati — chiede tra 30 e 40 euro per i test di migliore qualità sull’Igg e altrettanti sull’Igm (infezioni passate e presenti). Le case di cura Usi a Roma chiedono per lo stesso servizio 45 euro, la tariffa indicata dalla Regione Lazio.

Ma proprio la scarsa conoscenza dei dettagli fra le persone comuni sembra alimentare situazioni paradossali. Accanto ai kit affidabili quasi al 100% (modelli Elisa o Clia, come quelli di Abbott e Diasorin), ci sono kit che danno risultati corretti solo nell’80% dei casi e sono prodotti in Cina. Sono quelli rapidi con prelievo di una goccia di sangue messa su un reagente, con risultati in dieci minuti. Il costo di questi «test rapidi» è molto inferiore, perché per farli non occorre alcun macchinario e pochissima manodopera. Ma venerdì la Casa della Salute di Genova chiedeva 60 euro per la prova Igg e Igm, mentre Altamedica di Roma chiedeva per lo stesso servizio 100 euro, o 150 a domicilio. Non sono prezzi inevitabili, perché la Paramedica di Padova offre i test di migliore qualità con prelievo di sangue a domicilio per 55 euro. Sembra che, per ora, in Italia i kit più inaffidabili di fabbricazione cinese siano i più diffusi e vengano somministrati ai costi di quelli migliori.

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