L’America vuole conquistare (di nuovo) la Luna per farne una base spaziale. E per trivellare in pace

In ottemperanza al nuovo Programma Artemis, sul nostro satellite saranno istituite ‘zone di sicurezza’ per i lavori di scavo e l’appropriazione di risorse, con buona pace dell’Outer Space Treaty


STATI UNITI. Passati gli anni d’oro dell’esplorazione spaziale e della ‘corsa allo spazio’, sembrava che le missioni della Nasa e degli altri organi simili fossero ormai limitate al lancio di satelliti e sonde. Del resto, perfino l’operazione più affascinante mai compiuta in tal senso – ovvero lo sbarco sulla Luna – è rimasta più un unicum che una continuità. È dal 1972, con la fine della missione Apollo 11, che l’uomo non mette più piede sul romantico satellite della Terra. Chi pensava che dopo quasi cinquant’anni la Luna potesse tornare al centro di un nuovo scontro tra superpotenze?

L’anno scorso la Nasa ha infatti annunciato il Programma Artemis: portare la prima donna e il prossimo uomo (sarebbe il tredicesimo) sulla Luna entro il 2024. Con l’intenzione di farli restare lì per costruire, entro il 2028, stazioni permanenti, vere e proprie basi spaziali da usare come punto di partenza per la successiva missione, un nuovo “grande passo per l’umanità”: mettere piede su Marte. Tutto splendido, sulla carta: non si può negare né il ruolo pioneristico della Nasa nell’esplorazione dello spazio né l’importanza della missione promossa dall’amministrazione Trump. Ma c’è di più. Artemis presenta diverse ‘zone grigie’ che meriterebbero di essere approfondite.

La Reuters ha infatti rivelato alcuni sviluppi del programma che non sono ancora stati chiariti completamente: l’amministrazione Usa starebbe infatti preparando la bozza internazionale dei ‘The Artemis Accords’, per l’esplorazione e – ed ecco la ‘stranezza’ – lo sfruttamento della Luna, con la creazione di quelle che vengono chiamate ‘zone di sicurezza’: aree in cui chi ha cominciato a scavare si aspetta di non essere disturbato da altri “in modo da prevenire danni o interferenze da paesi o compagnie rivali operanti in prossimità”. L’accordo punta anche a dare una base legale, da inquadrare nel vigente diritto internazionale, alla proprietà delle risorse estratte: e la cosa, se fatta per evitare rivendicazioni ilelcite e per dare una cornice legale all’esplorazione spaziale allo scopo di frenare o coordinare la corsa dei vari paesi coinvolti – tutti intenzionati a riconoscere per i propri cittadini il diritto di sfruttamento delle ‘miniere spaziali’ – non rappresenta nemmeno un’idea sbagliata. Ma nella mossa Usa c’è un punto critico: rivolgendosi solo agli alleati – Europa, Canada, Giappone, ma anche Emirati Arabi – ed escludendo le grandi potenze rivali, Russia e Cina, non si farebbe che approfondire le divisioni e accentuare il rischio di una dannosa competizione libera-tutti per le risorse celesti, spiega il Financial Times.

Sebbene fonti governative neghino si tratti di rivendicazioni territoriali, sembrerebbe quindi che l’America stia cercando di piantare la sua bandiera – e le sue trivelle – anche sul nostro satellite, decisione che striderebbe parecchio con il cosidetto ‘Outer Space Treaty’, accordo firmato dagli Stati Uniti nel 1967 insieme ad altri 108 paesi in base al quale i corpi celesti “non sono soggetti ad appropriazioni nazionali attraverso rivendicazioni di sovranità, occupazione o ogni altro mezzo”. Lo spazio viene definito “provincia dell’intera umanità”, da esplorare “a vantaggio e nell’interesse di tutte le nazioni”. Perché la storia delle esplorazioni spaziali è sicuramente una storia di ‘corsa’, ma anche e soprattutto una di cooperazione. L’unico modo, forse, attraverso il quale l’umanità intera come specie, e non come nazioni, può guardare al futuro e continuare a sperare in un’evoluzione.

Pietro Ranieri

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