Fine vita e cure palliative, arriva l’intelligenza artificiale che segnala i pazienti più a rischio

In atto negli Usa una sperimentazione mediante algoritmi che suggeriscono ai medici una lista di malati la cui condizione necessita di attenzioni particolari


Una sperimentazione che coniuga scienza, tecnologia e umanità. È quella raccontata da Elena Tebano per il Corriere della Sera, tratta dal Boston Globe e incentrata sull’uso dell’intelligenza artificiale nelle cure palliative.
Nelle cliniche delle Università di Stanford, della Pennsylvania e in alcune cliniche oncologiche di Seattle è possibile sapere se una persona può morire entro un anno. I medici ricevono periodicamente delle mail con i nomi dei loro pazienti, affetti da gravi malattie e quindi in terapia, che hanno la probabilità maggiore di morire entro 12 mesi. La lista di nomi è generata da algoritmi che “sono addestrati e testati su migliaia di dati di pazienti che sono stati trattati in precedenza, comprese le loro diagnosi, i loro farmaci, e se sono peggiorati e sono morti. Alcuni modelli prendono spunto anche dai dati socioeconomici e dalle informazioni relative alle richieste delle assicurazioni”. Gli algoritmi – scrive ancora Stat – hanno il compito di esaminare le cartelle cliniche dei pazienti per prevedere se sono ad alto rischio di morte nelle settimane o nei mesi successivi. Si basano su criteri di indicizzazione diversi per determinare quali pazienti segnalare come ad alto rischio, un po’ come Google decide quali risultati mettere nella prima pagina di una ricerca”. E in base alle risultanze si decide di avviare “importanti conversazioni sulle cure di fine vita che altrimenti sarebbero potute avvenire troppo tardi, o per niente, in assenza dell’intelligenza artificiale”

Quindici medici specialisti che si sono serviti di tale strumenti li considerano “preziosi per capire a quali pazienti rivolgere particolari attenzioni quando si tratta di discutere le possibili terapie palliative”, ma dichiarano altresì di servirsi non solo di tali parametri. Gli algoritmi, infatti, possono sbagliare: “Quello usato all’Università della Pennsylvania – si legge – ha analizzato 25 mila pazienti oncologici per valutarne il rischio di morte entro sei mesi. Solo il 45% di quelli che ha segnalato è effettivamente deceduto entro sei mesi (rispetto al 3% dei deceduti nel gruppo considerato a basso rischio)”.
Tuttavia, si sono rivelati fondamentali in diversi casi.
“È successo alla dottoressa Samantha Wang, – riporta il CorSera – con un paziente di 40 anni ricoverato per un’infezione respiratoria, che lei non avrebbe altrimenti considerato a rischio e che le ha detto di voler ricevere tutti i trattamenti salva-vita possibili. Oppure a Sibel Blau, un’oncologa della regione di Seattle, che grazie alla segnalazione dell’algoritmo ha visitato una prima volta un’anziana malata di un cancro incurabile, scoprendo un’infezione che avrebbe potuto ucciderla, e poi, quando il sistema l’ha segnalata di nuovo, ha scoperto che la donna non ce la faceva più a sopportare la chemioterapia e che invece di prolungare le sue sofferenze voleva trascorrere gli ultimi mesi della sua vita in pace. Hanno sospeso le cure e così è stato”.

Insomma, la tecnologia a servizio dell’uomo. Non senza interrogativi etici e morali. E sei medici si facessero influenzare nella somministrazione di terapie, curando magari “peggio” i pazienti considerati a rischio? Un rischio. Ma non l’unico del mestiere.
Infine, dinanzi allo sconcerto derivante dalla possibilità che sia un macchinario a “predire” la morte, tutti gli specialisti intervistati hanno affermato che “nessuno di loro, quando ha parlato con un paziente considerato a rischio, gli ha mai detto che a segnalarlo era stato una macchina”.

 

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