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L’Islam che non conosce pace: coppia rapita in Africa, lei finge la conversione per salvarsi la vita

 I tragici eventi dei due ragazzi, lui italiano, lei canadese, sono diventati oggetto di un libro. L’autrice Edith Blais racconta: “Dopo il sequestro ci hanno separati, ho dovuto indossare il hijab e fingere per salvarmi la vita”. E ricorda la cattura, la fame, la fuga vissuta insieme al compagno padovano Luca Tacchetto


PARIGI. Edith Blais e Luca Tacchetto sono due ragazzi come tanti, appassionati di viaggi. E di certo ne hanno fatti molti da quel 2016 in cui si conobbero. Fino al più avventuroso: dal padovano, zona d’origine di lui, all’Africa centrale in auto. Purtroppo l’esperienza non è stata piacevole come immaginavano.

Lo racconta proprio Edith, canadese, in un libro che uscirà tra pochi giorni in Francia. S’intitola ‘Le sablier’ e svela tutti i retroscena di quel viaggio che si è trasformato in un incubo. Perché la coppia di giovani fidanzati viaggiatori, giunta in Burkina Faso nel dicembre 2018, fu rapita da una banda di malintenzionati. E per 15 mesi hanno fatto la spola da una banda di rapitori all’altra.

Non è un film, è vita vera. “Ci aspettavano sei uomini in turbante, armati di kalashnikov. Quattro di loro si gettarono su Luca, puntandogli contro le pistole come pazzi”, riporta il “Corriere del Veneto” offrendo un’anticipazione dei contenuti del libro. La ragazza racconta anche che tra le bande di rapitori diverse erano composte da bambini-soldato. “Potevano avere dai 13 ai 15 anni, militari in miniatura con in mano grandi kalashnikov”. Il 4 marzo del 2019, 79 giorni dopo il rapimento, Luca ed Edith vengono separati. I nuovi aguzzini la costringono alla conversione all’Islam, che Edith finge di accettare: “Mi sono lavata e ho indossato il hijab, dovevo sopravvivere e la conversione era il male minore. Oggi non ho conservato nulla di questa religione”.

Dopo undici mesi Edith e Luca riescono a riunirsi. È il ragazzo a progettare la fuga, che riesce grazie a un camion intercettato lungo il cammino che li porta a Kidal, davanti a un edificio governativo. Poi il viaggio in aereo fino a Bamako, la capitale del Mali, dove incontrano un delegato dell’Onu: “Avrei voluto stringergli la mano, ma invece mi ha offerto il suo gomito. L’ambasciatore ha capito che non sapevamo nulla e quindi ci ha spiegato che eravamo nel bel mezzo di una pandemia. Per la prima volta ho sentito parlare del coronavirus”, scrive Edith.

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