Regionalismo differenziato, in Consiglio regionale la proposta di ‘secessione’ del Nord

Ma che cosa è e come è possibile che tre regioni del Nord Italia abbiano avviato le procedure per la richiesta di autonomia su importanti materie di competenza dello Stato?


CAMPOBASSO. Regionalismo differenziato sì o no? Quali vantaggi, quali svantaggi? Il dibattito arriva a Palazzo D’Aimmo sulla scia di tre mozioni (aventi lo stesso oggetto) presentate dal Partito Democratico, da Michele Iorio, da Forza Italia (con Nico Romagnuolo e altri) e, in zona Cesarini, anche dal Movimento 5 Stelle.

Tanti gli interventi in aula, per ripercorrere la vicenda in una sorta di ‘scambio di accuse’ che è sfociato nelle differenze politiche. Sul banco degli imputati Il Partito Democratico (che era al governo fino a marzo scorso), la Lega e il Movimento 5 Stelle che oggi ‘consentono’ questo iter avviato da tre regioni del Nord Italia. Ma ai sensi della Costituzione, si badi bene.

Il regionalismo differenziato è una norma costituzionale (di fatto inserita nell’art. 116, con riferimenti precisi agli altri artt. 117, 119 della Costituzione) introdotta con la cosiddetta riforma del Titolo V del 2001, ma facente riferimento ed espandendo e precisando l’articolo 5 della Costituzione.

Il comma 3 dell’articolo 116 recita: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.”

A fine 2017, con referendum consultivi, Veneto e Lombardia hanno avviato la procedura di richiesta di autonomia su 23 materie, tutte rilevanti. E tutte a rischio boomerang per l’unità nazionale, per le differenze che di fatto creeranno sul territorio e fra le aree geografiche. Differenze legate alla ‘ricchezza’ dei territori coinvolti: le tre regioni che stanno percorrendo questa strada (Lombardia, Veneto e Emilia Romagna) insieme contano il 41 per cento del Pil italiano. Le materie sono offerta formativa scolastica, contributi alle scuole private, fondi per l’edilizia scolastica, diritto allo studio e la formazione universitari, cassa integrazione guadagni, programmazione dei flussi migratori, previdenza complementare, contratti con il personale sanitario, fondi per il sostegno alle imprese, Soprintendenze, valutazioni sugli impianti con impatto sul territorio, concessioni per l’idroelettrico e lo stoccaggio del gas, autorizzazioni per elettrodotti, gasdotti e oleodotti, protezione civile, Vigili del Fuoco, strade, autostrade, porti e aeroporti, partecipazione alle decisioni relative agli atti normativi comunitari, promozione all’estero, Istat, Corecom al posto dell’Agcom, professioni non ordinistiche.

Che cosa chiedono le regioni, in ossequio – si chiaro – al famigerato comma 3 dell’articolo 116 della Costituzione? Più autonomia, più potere di decisione, più soldi. L’Emilia-Romagna chiede solo autonomia di decisione, non più soldi per ora. In pratica chiedono di trattenere una cospicua quota del cosiddetto residuo fiscale “regionale” che è una stima calcolata sottraendo, dal gettito fiscale complessivo generato dai contribuenti residenti nella regione, la spesa pubblica complessiva in quella stessa regione.

Una proposta che, secondo i costituzionalisti, scavalcherebbe del tutto l’articolo 53 della Costituzione che garantisce il ‘patto fiscale’ che viene stipulato tra lo Stato e i cittadini e si fonda sulle “nozioni di ‘progressività’ e di ‘capacità contributiva’ del cittadino proprio per consentire le politiche dell’uguaglianza e permettere allo Stato di adempiere ai suoi compiti redistributivi” .

In questo modo, secondo i ‘catastrofisti’, se l’iter avviato dovesse arrivare in Parlamento (con una procedura blindata tra l’altro) verrebbero espropriati della competenza statale tutti i grandi servizi pubblici nazionali e verrebbe meno qualsiasi possibile programmazione infrastrutturale nel Paese.