Ariston, il palazzo di nove piani non si può fare: il Consiglio di Stato respinge il ricorso

La soddisfazione dei legali del Codacons, dopo il pronunciamento dei giudici di via Capo di Ferro. Il progetto per la realizzazione di un fabbricato di novemila metri quadrati, al posto degli attuali mille, va rivisto. Sollevate questioni di carattere sociale, oltre che urbanistiche


CAMPOBASSO. Il palazzo di nove piani, che doveva sorgere al posto dell’edificio dell’ex cinema Ariston di via Larino, non si può fare. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, confermando la sentenza del Tar Molise del 2016 e respingendo il ricorso presentato dalla società ‘Cinema teatro Ariston’ in liquidazione.  

Lo hanno chiarito gli avvocati del Codacons, Pino Ruta, Margherita Zezza, Carlo Rienzi e Gino Giugliani, in una conferenza stampa convocata il giorno dopo la pubblicazione della sentenza dei giudici di via Capo di Ferro. Una decisione presa dalla Quarta sezione, presieduta da Luigi Maruotti.

“Il Consiglio di Stato – ha chiarito Ruta – ha confermato l’annullamento del titolo edilizio richiesto e ottenuto dalla ditta, per costruire al posto del fabbricato esistente uno stabile di 9 piani e 9mila metri quadrati, al posto degli attuali mille. Con una sentenza definitiva si è posto quindi termine a una vicenda che in qualche modo aveva anche allarmato la comunità”.

Il fabbricato non ha il vincolo, ha chiarito l’avvocato, per una questione di carenza di istruttoria. Nella sentenza, tuttavia, la zona di via Larino viene considerata un prolungamento del Centro storico, elemento che pone una serie di paletti in più. “I giudici del Consiglio di Stato – ha quindi precisato Pino Ruta – hanno giudicato oggettivamente sproporzionato il permesso di costruire. Ovvero la possibilità di demolire l’esistente e di realizzare un massiccio intervento urbanistico, in una zona della città già fragile dal punto di visto urbanistico e congestionata. Si trattava di nove piani al posto di due in strade strettissime, senza tener conto della distanze, oltre che delle dimensioni”.

Cosa succederà in futuro? Abbattere lo stabile e ricostruirne un altro che rispetti altezze e cubature oggi teoricamente è possibile. Servirà tuttavia, ha puntualizzato il legale del Codacons, una nuova valutazione e un nuovo iter istruttorio urbanistico ed edilizio. Quindi un nuovo progetto.

“La cosa certa è che si pone la parola fine – ha dichiarato ancora Ruta – perché quel permesso di costruire era  troppo impattante, con possibili effetti deflagranti in zona già sensibile. Tutti assistiamo alla coda di macchine che si forma lì, pensiamo a un fabbricato di 9 piani e 9mila metri, che potevano un carico urbanistico eccessivo. E’ che si espone la città a scelte irreversibili, che condizionano l’ordinato sviluppo del territorio. Non è solo un problema estetico-paesaggistico – la puntualizzazione – ma anche funzionale, con difficoltà di ricambio di aria, di luce, quindi insalubrità dei luoghi. Così come non è una questione di carattere privatistico, ma di carattere sociale, collettivo e quindi pubblico, che va affrontata con la sensibilità giusta, visto che quando si interviene sul territorio le scelte a volte diventano irreversibili”.

Resta il problema della sicurezza dell’edificio, da qualcuno sollevato dopo il crollo del capannone di via Gazzani.

“Non è sufficiente che un fabbricato sia vetusto o abbia una precarietà data dalla caduta di un calcinaccio, che poi bisogna demolirlo e ricostruirlo in modo sproporzionato – ha rimarcato ancora il legale del Codacons – Molte volte si ricorre a delle considerazioni che in partenza possono essere anche esatte, per fabbricati datati che richiedono attività manutentive, per poi legittimare interventi speculativi o oltremodo impattanti. Questa è una prassi alla quale bisogna in qualche modo porre termine. Se un fabbricato si sta deteriorando non si può dire demoliamo tutto e costruiamo i grattacieli di Manhattan, per dar luogo ad altre operazioni. Questa è una cosa – ha concluso Ruta – sulla quale un po’ la collettività un po’ le amministrazioni dovrebbero fare più attenzione. In questo caso il rischio è stato scongiurato”.

Carmen Sepede

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