HomeMEDIA E TECNOLOGIAEtnografia del cyberspazio: cos’è e quali applicazioni può avere

Etnografia del cyberspazio: cos’è e quali applicazioni può avere

L’analisi del fenomeno a cura degli esperti di I-Forensics Team


La comparsa e l’affermarsi di Internet e delle nuove tecnologie dell’informazione, dai primi anni ‘80 in poi, hanno fisiologicamente suscitato la produzione di una gran quantità di testi, riflessioni e ricerche tale da configurare una nuova disciplina nell’ambito delle scienze umane e sociali, indicata con diverse e molteplici etichette: Cybercultures Studies, Computer Mediated Communication Studies, Internet Studies. Una specializzazione dalla vocazione fortemente multidisciplinare che incrocia diverse discipline quali antropologia e sociologia, linguistica e politica, in proporzioni diverse a seconda dei luoghi e dei dipartimenti universitari che si sono avviati su tale indirizzo di studi.

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il cyberspazio è stato enfatizzato come spazio autonomo, come ambiente sociale a sé, slegato dai contesti e dalle modalità sociali off-line in cui è effettivamente utilizzato. In questo senso che cosa significa “etnografia” riferita a Internet? Un approccio che vede Internet come un mezzo inserito in uno specifico luogo e che in un qualche modo può anche trasformare quel luogo. In un senso metodologico più stretto, un approccio etnografico è anche basato su un coinvolgimento a lungo termine e dalle molteplici sfaccettature con un ambiente sociale. A questo riguardo siamo relativamente conservatori nella nostra difesa dei canoni tradizionali della ricerca etnografica.

In altri casi, l’idea dell’etnografia di Internet ha significato quasi esclusivamente lo studio delle “comunità” on -line e delle sue interrelazioni – l’etnografia del cyberspazio (Markham 1998; Paccagnella 1997”).

Lo studio delle tecnologie avanzate di comunicazione ha suscitato come di seguito elencato i seguenti interessi da parte degli antropologi. Sono possibili due casi: un primo caso sembra ipotizzare un “campo” esclusivamente virtuale. Internet con le sue particolarità tecniche con i suoi spazi di comunicazione interattivi (e-mail, chat, mud, forum, ecc.) è un “campo” a sé in cui non è prevista, se non sporadicamente, l’interazione corporea, faccia a faccia, con coloro che si appresta studiare.

Nel secondo caso le tecnologie non rappresentano un campo a sé, ma sono implicate nei meccanismi di produzione e riproduzione della cultura delle persone, nei contesti territoriali o anche dispersi in gruppi non-virtuali di persone. Due ricercatori britannici Miller e Slater in una ricerca sull’uso di Internet nell’isola di Trinidad (Miller e Slater, 2000), rifiutano esplicitamente la categoria di realtà virtuale, del cyberspazio come radicale separazione del mondo online da quello of line. Considerano Internet e le tecnologie connesse ad essa, come un ambito specifico della cultura materiale e propongono quattro prospettive d’indagine centrate sui soggetti reali, nei termini di dinamiche che tali mezzi rendono possibile. Eccole:

1) la prima dinamica esplora l’uso di Internet come mezzo che consente alle persone di realizzare il loro senso di chi già sono e di chi potrebbero essere in futuro;
2) la seconda indaga la relazione tra il senso di libertà associato con Internet e il desiderio rassicurante dell’ordine e delle convenzioni consolidate del mondo reale;
3) la terza dinamica esamina come le persone esplorano creativamente le tecnologie specifiche di Internet come l’e-mail, la chat e i siti web;). Internet non viene considerata, dai due autori, come una struttura monolitica chiusa in sé, ma come una serie di possibilità, di pratiche, di software, di tecnologie utilizzati da persone reali.

Legittimare il cyberspazio come oggetto di ricerca antropologico non è certo impresa facile, come ci ricordano le considerazioni di James Clifford a proposito del campo virtuale: “Che dire se qualcuno si desse a studiare la cultura degli hacker (un progetto di ricerca antropologica perfettamente accettabile in molti, se non tutti, i dipartimenti accademici) e nel corso dell’indagine non incrociasse mai, non “interfacciasse”, un solo hacker in carne ed ossa? Potrebbero i mesi, magari gli anni, spesi a navigare sulla rete, essere considerati lavoro sul campo?”.

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