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L’identità molisana

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di Rossano Turzo

Amleto e il Molise. Questo mio intervento non era necessario. Ma, proprio perché non necessario, questo intervento è genuinamente molisano. Il Molise è una cosa non necessaria. Se sparisse all’improvviso dalla carta geografica, nessuno se ne accorgerebbe. Non se ne accorgerebbero nemmeno i miei amici di Jelsi e di Agnone che, tra loro, non hanno alcunché in comune oltre alla non necessarietà, oltre al loro essere che potrebbe anche non essere e non cambierebbe niente.

Il Nulla e il Molise. Se l’identità del Molise e dei molisani si fonda su questo concetto di non necessarietà, tentare una ricognizione delle peculiarità degli abitanti e del territorio è invece necessariamente necessario: anche il Nulla sente il bisogno di una definizione.

Heidegger e il Molise. Non è vero che il Nulla è la mancanza di ogni cosa. Quando io e Ruzzone partimmo per l’Argentina, non avevamo niente. Ma quel Niente non significava assenza di ogni cosa perché, altrimenti, non ci avrebbe dato tanta sofferenza e non saremmo partiti. Quel Niente era così Tanto che ci pesava addosso come una campana di Agnone. Che io vedevo Ruzzone con una faccia da morto e gli chiedevo: “Ma che tieni? Che ci hai?” E lui mi rispondeva: “Niente”. Vallo a spiegare ora che quel Niente era una cosa che esisteva, una cosa concreta, che ti faceva iettare il sangue come una salma di lena da uscire dal bosco.

Fellini e il Molise. Il Molise è come a Vaduz. Inconsistenza, inconcretezza. Un buco nero che brucia denaro dello Stato – con il federalismo appicceremo la pippa – . Nascere in Molise è come nascere in un luogo immaginario, della fantasia. È una cosa come il Liechtenstein che sta sulla carta geografica ma se ci passi con la macchina non te ne accorgi. È una cosa che esiste solo perché qualcuno dice che esiste e tu non vuoi dire il contrario se no quello si offende o ci rimane male. È una cosa che quando sei piccolo ti sembra vero perché sei un bambino e credi pure a Babbo Natale. Ma quando diventi adulto – se ci diventi – ti rendi conto che da lì te ne devi andare. Puoi anche decidere di rimanere ma a quel punto, per campare, devi sfruttare le favole. E allora o diventi il padrone della giostra oppure ti accontenti di fare le pulizie al luna-park. Il Molise è un luna-park con pochi giochi: non c’è niente di vero e i bambini intelligenti, dopo che si sono fatti quattro o cinque giri, si rompono i coglioni e chiedono ai genitori di andarsene. A girare e a piangere per fare un altro giro ci rimangono solo i cretini. Per mancanza di iodio.

Peter Pan e il Molise. È vero che, come dice Alberti, i molisani che sono andati via si sentono in esilio. È vero perché i molisani che diventano adulti non vanno via da soli. Vengono espulsi come supposte incompatibili, insopportabili. Chi rimane bambino, in questa regione, continua a girare sul cavalluccio ma chi diventa adulto non ha scelta: deve andare via. Rimanere ha lo stesso senso di un tentativo di convincere i bambini e il giostraio del fatto che i cavallucci e le automobiline della giostra non sono reali. E quelli mica si fanno convincere! I bambini perché sono ingenui. Il giostraio perché ci guadagna. Quando uno sta sull’autoscontro si immedesima e gli sembra di stare sulla Trignina o sulla Bifernina. Ma la Trignina e la Bifernina, pur non essendo una cosa seria reale, non sono neanche cose immaginarie, che appartengono alla sfera del gioco, come l’autoscontro. Sulla Trignina e sulla Bifernina si muore ogni giorno. Il molisano crepa e continua a girare con l’automobilina. Per il molisano vero la morte non esiste: il molisano crepa ogni giorno nel ribaltamento del trattore, cadendo dall’impalcatura e di incidente stradale. Ma continua a far finta di niente e a consentire l’ennesimo giro di giostra al giostraio e ai bambini. E a se stesso.

Gödel e il Molise. L’identità culturale di un popolo è l’insieme degli elementi genetici, fisiologici, che quel popolo ha e, insieme, i mutamenti prodotti dalle scelte fatte o subite, dalle stratificazioni culturali che, nel corso dei secoli, si sono disposte una sull’altra nella storia di quel popolo. Le due cose non sono mai disgiunte. Io, per esempio, mi mangio la pezzata come mio zio di Capracotta ma poi, quando sono stato in Argentina, ho imparato anche a mangiare il vitello al brodo come a Miguel, il mio compagno di stanza a Rosario. La pezzata l’ho avuta geneticamente, il brodo di vitello è stato un fatto culturale.
Alcuni movimenti di lavoro del corpo dei contadini meridionali, impegnati nella cura della vite, sono identici a quelli dei contadini greci. Ruzzone sarchia come a Kalamarata, un amico mio di Lucito che viene da Salonicco. Partendo da un momento di condivisione del lavoro, quei gesti si sono trasmessi per via culturale, insegnati dai padri ai figli, passando di generazione in generazione.
Altri movimenti del corpo – gesti propriamente fisici che possono essere considerati addirittura elementi caratteriali, di stile (muovere le mani, sedersi, camminare ecc.) – vengono invece trasmessi geneticamente.
L’identità (naturale e culturale) del Molise del 1963 era una cosa. Quella del 2004 è la somma di quella del 1963 e dei quarant’anni di Democrazia Cristiana che hanno modificato in maniera importante il DNA del popolo molisano.

IM2004 = IM1963 + DC40

Le scelte politiche e culturali, nel lungo periodo, producono modificazioni genetiche. Ruzzone era figlio di un ramaio di Agnone: attonnava attonnava finché non usciva la forma che diceva lui. Da quando sta con me, e ci sta da quarant’anni, dice pure qualche endecasillabo. Una volta il critico Strippone, al premio di poesia di Petrella, disse che Ruzzone scriveva versi tondi e morbidi. Ecco: Ruzzone è un poco poeta perché è stato con me e un poco attonnatore perché il padre faceva il ramaio.
Se l’università del Molise diventasse uno “stipendificio” — considerato e reso tale da docenti che partono da Roma Termini alle tre del pomeriggio, fanno lezione alle sei del pomeriggio e ripartono con il treno delle otto — ci ritroveremmo tra cinquant’anni a parlare di una certa identità molisana:

IM2054(1) = IM1963 + DC40 + UMST50

dove UMST50 sta per “Università del Molise 50 anni di stipendificio”.
Se invece l’Università del Molise diventasse un luogo importante di cultura, con i docenti disposti a vivere la nostra realtà, a rimanere fisicamente in Molise, a partecipare alle scelte culturali e politiche, a dare il proprio contributo di scienza e di idee anche in dibattiti come questo, ci ritroveremmo, tra cinquant’anni, un Molise diverso e una diversa identità:

IM2054(2) = IM1963 + DC40 + UMCUL50

dove UMCUL50 sta per “Università del Molise 50 anni di cultura”.
Ecco perché è tanto importante il ruolo del politico: perché dipende da lui se l’Università del Molise, nei prossimi anni, sarà un luogo di cultura o uno stipendificio. E se me ne frega di una qualche identità, quella che mi interessa di più è proprio quella del 2054 che la possiamo costruire e non quella di oggi che sta già bell’e fatta.
L’identità della Toscana ai tempi di Dante era una cosa; dopo l’esperienza di Lorenzo il Magnifico è diventata un’altra cosa.
Noi abbiamo Michele Iorio che, prima di fare il politico, faceva parte de’ Medici, nel senso che faceva il medico. E di Magnifico teniamo il rettore Cannata.
«Frekate», direbbe Ruzzone che tiene un cugino a Pescara. Io dico solamente: tanti auguri Molise.

Il vino. Quando sento parlare di identità liquida e solida ― Di Lisa e La Penna ― io penso al vino e al pane. Il Molise ha il maggior numero di obesi ultrasessantacinquenni d’Italia. E anche i bambini molisani non scherzano.
Il vero molisano si crocca un vino che è sempre una vera ciofeca. Ogni volta che me lo offrono penso a quei guaglioni di Rosario, quando stavo all’Argentina, che si odoravano la vernice per drogarsi. In nessun’altra regione si beve un vino così schifoso. Il vero molisano non sa fare il vino.
Anche questi giovani che vanno all’enoteca – e ammaglioccano parole come a fruttato e retrogusto – non sanno riconoscere i sapori perché non sono mai stati educati ad amare il sole. Il contadino molisano non ha mai amato il sole, né ha mai amato la terra.
Una bella giornata o un campo che gronda fertilità è qualcosa che può riconciliare con il mondo. La vanga che trova la terra grassa e la penetra trasmette alle braccia, e poi al cuore, la vita. Il molisano è distruttivo e se ne frega. Anche quando il suo rapporto con la terra è sereno, non riesce ad amarla. Il molisano non si è mai chinato sulla zolla per sentirla, non ne ha mai preso un po’ nella mano per stringere un patto di collaborazione. Il molisano ha sempre avuto con la terra un rapporto di sfruttamento o di timorosa e scaramantica sottomissione.
Ecco perché ci portiamo dentro l’incapacità genetica a riconoscere il buon vino: non lo amiamo. Ma non è soltanto per questo. C’è dell’altro. Il molisano è incapace di compiere un lavoro di precisione: arronza, arrotonda, smezza, si accontenta. Nelle cantine molisane avvengono cose inenarrabili. I Rossi vengono mescolati ai Bianchi, ottenendo una miscela imbevibile, solo perché c’è una qualche necessità di liberare una damigiana e di fare un po’ di spazio. Elementi naturali, ma estranei alla vite e alla produzione del vino, vengono aggiunti per ottenere effervescenze o miglioramenti zuccherini. E, poi, inutili bolliture e travasi mancati o sconsiderati.
Quando a dicembre vado a Morrone, dal mio amico Struccone, per assaggiare il vino nuovo, mi si attorcigliano le budella. Un po’ perché Struccone ammazza il maiale con soddisfazione e a me questo mi dà fastidio. Ma soprattutto perché ogni anno il vino peggiora perché ci mette insieme quello dell’anno prima, perché dentro alla cantina ci tiene pure i detersivi e la vernice, perché travasa quando tiene un giorno libero e non quando lo dice il vino.
Il molisano ama il pressappochismo, rimane in superficie, non approfondisce, non ne vuole sapere. D’altronde non c’è mai stato, nella storia del Molise, un alchimista. Né uno che, emigrato in Svizzera, si è messo a fare gli orologi.
Anche in politica il molisano preferisce l’accetta al bisturi. Anche in questo campo non ne vuole sapere. Vota persino l’ignorante purché ci sia un tornaconto personale o familiare o per il semplice obiettivo di far passare in fretta il periodo elettorale. Per fare un buon vino ci vuole l’amore per la terra e per il sole. Ci vuole una buona attrezzatura. E poi dedizione, concentrazione, passione, precisione, cura. Insomma ci vuole un investimento affettivo, economico e di tempo. Pur di non fare tutto ciò il molisano si beve qualsiasi ciofeca. E fa lo stesso in politica.

Il pane. Quando stavo all’estero mi veniva sempre l’acquolina in bocca per la nostalgia della treccia di Vastogirardi, della stracciata di Capracotta. Insomma, i latticini dell’Alto Molise tornavano alla memoria e mi facevano piangere. Soprattutto quando, a Buenos Aires, facevo la fame e mi mangiavo la carne al brodo. Perché là, in Argentina, la carne che ci fanno il brodo dicono che siccome l’hanno già sfruttata non ha più valore commerciale. E te la davano gratis.
Il mio amico Ruzzone mi ha detto che vede spesso in giro, in Molise, i camion che scaricano la “pasta olandese” che poi è più facile fare le scamorze che è già tutto quasi pronto e costa meno. Mi ha detto anche che gli scienziati che stanno in Molise stanno studiando il lievito dei latticini molisani e che poi si venderanno la formula alle industrie. Così anche all’estero si potranno mangiare una buona scamorza molisana. Che pure mi sembra una bella cosa perché, quando stavo a Buenos Aires, Ruzzone mi mandò dall’Italia una scamorza sott’olio – olio di Larino – e me la mangiai fresca fresca dopo trenta giorni di nave. Sentii il sapore dell’erba di Colle dell’Orso, a Frosolone, e della terra di Larino quando diventa calla calla e si spacca. Quella scamorza sott’olio mi fece così bene, non solo allo stomaco ma pure all’anima, che ancora oggi se ci penso mi viene una vampata come quelle delle femmine in menopausa.
Però, questo fatto della formula che daranno alle multinazionali non mi piace. In una cosa siamo stati fortunati: i latticini. Perché non è che ci siamo arrivati per la grande scienza casearia. Ci siamo arrivati arrozzando arrozzando, per fortuna. Al sapore della treccia e della stracciata ci siamo arrivati per una di quelle rare combinazioni che hanno girato a nostro favore. Ma ora ci vendiamo la scamorza e facciamo venire la pasta dall’Olanda così è tutto più facile. Ecco: a noi ci piace la discesa, non ci sta niente da fare.
Dante Di Dario scrive che
La crescita economica del Molise è dipesa fortemente dall’industria e, in modo particolare, dalle politiche di incentivazione per il settore.
Subito dopo, aggiunge:
Nella situazione di crisi che sta attraversando il settore industriale nella nostra regione, occorre fare una riflessione. Se la crescita economica del Molise è dipesa fortemente dalle attività industriali (…) occorre ripartire in primo luogo da queste per recuperare il gap.
Bisogna cioè, secondo lui, tornare a chiedere i soldi allo Stato. Bisogna, secondo Di Dario, tornare a sperare nella elemosina a fondo perduto. E se queste sono le proposte di un imprenditore, figuratevi quanta voglia di rischiare, di accettare una politica di cambiamento, può avere un impiegato regionale. Uno di quegli amici miei che fatica all’assessorato a Campobasso o al palazzo dove ci stava il cinema Fasano a Isernia. E in Molise ci sono più impiegati regionali che imprenditori.
Quando penso all’identità molisana penso allo squallore degli arredamenti degli uffici regionali. Che nemmeno quelli siamo stati capaci di fare. Penso agli impiegati regionali e agli imprenditori che pensano allo stesso modo.
Quando vado in Agnone passo per la zona industriale di Sessano e per il bivio di Staffoli. La pianura di Sessano è stata devastata dall’idea dello sviluppo industriale e oggi è un luogo triste di cementi abbandonati, nebbie di gas, acque giallorosse e soldi presi e portati a Milano. Staffoli è invece una curva di verde luminoso, di cavalli che sorridono, di legni e di foglie che ondeggiano sereni come braccia a salutare.
Ecco: sono convinto che al Molise ha portato più denaro – e tengo da parte ogni discorso sull’ambiente – il maneggio e il ristorante di Staffoli piuttosto che i centoventi posti di lavoro della zona industriale di Sessano.
Continuare a far finta che non sia così: questo è tipicamente molisano.

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Pubblicato su “Molise Glo/cal Idetnity”, Edizioni Il Bene Comune, giugno 2005
e su “Turzo Ten”, Edizioni Il Bene Comune, novembre 2011

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