Ho evitato di riportare altri particolari che erano stati inseriti per descrivere ciò che era accaduto in quella che si definiva una fossa carnaria, una delle modalità di sepoltura che in molti luoghi del Sud veniva ancora usata sul finire dell’Ottocento, assolutamente illegale ma ben accetta nella tradizione dei morti. Nel 1885 erano ancora 682 i comuni in cui si continuava tale pratica, mentre in 274 i cadaveri venivano seppelliti nelle chiese con i gravissimi problemi igienici che ciò comportava. Inoltre, in 2.720 comuni l’incaricato dal sindaco di ispezionare i cadaveri non era medico. Al tempo stesso era iniziata la pratica della cremazione a Milano, Roma, Brescia, Cremona e Udine. Era uno degli aspetti della questione sanitaria che fu analizzata nel 1885 da una ponderosa indagine denominata “Inchiesta sulle condizioni sanitarie sui comuni del Regno”.
Tornando al processo, vi fu un aspro confronto tra il pubblico ministero e la difesa che in tutti i modi cercò di alleggerire la posizione del medico. Quest’ultima invocò, per spiegare la posizione in cui fu trovata la D’A., gli effetti “da corrente elettrica o putrefazione”. Nella sentenza il Collegio giudicante sottolineò che “essa non può certamente produrre che il cadavere avvicini i suoi polsi ai denti e che questi roda il nastro di sopra indicato e molto meno gli altri movimenti di cui sopra è parola”. Durante il processo si scatenò una disputa tecnico-legale volta a dimostrare che il parto fosse dovuto alla “rilasciatezza”. Di contro la perizia sottolineava come la nascita non sarebbe potuta avvenire e che senza “le contrazioni dell’utero, impossibili ad aversi in un cadavere, il feto non può uscire”. Possiamo immaginare anche momenti di tensione durante il dibattimento quando la difesa diede dell’asino al perito “chiamato dalla giustizia” a verificare “se vivo nacque il feto”. Secondo questa, non erano stati seguiti i dettami che “i diversi autori di medicina legale suggeriscono e credono opportuni per raggiungere un siffatto scopo”. Gli esami autoptici furono eseguiti dal Dottor Pollice “che non merita censura, anzi lode per avere con precisione eseguito l’incarico che dalla giustizia gli venne affidato”. La prova definitiva derivò dalla docimasia polmonare, esame che stabilì come i polmoni del feto, inequivocabilmente, contenessero aria. A sua discolpa, il medico addusse motivazioni talmente deboli da suscitare la reazione stizzita del collegio. Nella sentenza si sottolinea che “se si fosse indotto ad operare, il miserando spettacolo che rattristò la pubblica opinione forse non avrebbe avuto luogo giacchè ben poteva la D.A. riaversi al primo colpo di bisturi che riceveva dal chirurgo”.
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