La storia dell’antico palazzo, dei suoi illustri proprietari e la figura poco nota del giurista, uomo di Stato e filosofo Francesco Magliano, nell’articolo a firma di Adolfo Stinziani


Continuo a raccontarvi la mia Larino e, poiché sono tutto sommato un artista (forse più diligente), seguo come apprendista scrittore il consiglio di uno dei più noti narratori della letteratura italiana: “Non pensare a quello che si vuole scrivere se non a tavolino. Il resto del tempo pensa ad altro…” (A. Moravia)

Pertanto oggi vi porto nella piazzetta di Santa Maria della Pietà (più nota ai larinati come U Chian da Madonn), qui, proprio dirimpetto al palazzo settecentesco dei de Gennaro sorge quello dei baroni Magliano. L’edificio, notevolmente rimaneggiato e oggi privo del secondo piano, presenta intatto solo il pian terreno, col suo imponente portale e l’ampio cortile con un’antica cisterna per l’acqua (foto del palazzo agli inizi del ‘900).

Nella parte posteriore si affaccia su via Circonvallazione col suo giardino-terrazzo e un dipinto sul muro (oggi potrebbe definirsi un esempio di Street Art, non so se è stato scialbato ma era un volto di donna che sembrava una leonessa).

Nobiltà, clero e terzo stato, senza dubbio e alcuna ironia, sono i principali connotati che caratterizzano la piazzetta di Santa Maria della Pietà nell’antica Città Frentana. Infatti nel quartiere sorgono, oltre la chiesa che da il nome alla piazza, diversi palazzi signorili, oggi iscritti all’A.D.S.I. (Associazione Dimore Storiche Italiane), a chiusura del quartiere sorge il palazzo Ricci con la sua torre e un arco che porta in un altro quartiere denominato dai cittadini ancora oggi I Casell.

Quell’arco costituiva la porta delle nostre partite a pallone, tanti erano i ragazzi che abitavano quel quartiere, immancabilmente la palla rotolava per le scale sotto l’arco su via Coriolano (intitolata a una famiglia larinese estinta), e lì forse vi era una colonia di greci.

Stabilitisi i greci in Alarino, dove abitavano essi? In sul principio Alarino si estendeva dal Convivium S. Pardi fino alla chiesa di S. Stefano. Il caseggiato che oggi va fino alla chiesa di S. Maria (S. Basilio), formava allora un sobborgo della nascente città, come rivelasi dal Tria ed era abitato dai Greci. Dell’esistenza di un rione posto a fianco della casa nostra, dove fra gli altri vi ha un vicolo dal nome “Vico Greco”, come si legge in una pietra antichissima, supponiamo che lo si chiamasse così perché i Greci abitavano in quei pressi. (da “Fogli abbandonati di storia larinese raccolti in continuazione del Tria dal parroco della Cattedrale di Larino D. Pasquale Ricci”).

Ma nel mio quartiere natìo, quando non trovavo compagnia, giocavo anche da solo, e mi arrampicavo sulle colonne ai lati del portale di palazzo Magliano, mi giravo verso le pietre ben sagomate che inquadravano il portone e, con molta fantasia, suonavo su una delle pietre come se fosse una tastiera di un pianoforte.

Mi godevo l’impresa di quella scalata e restavo seduto a lungo “a suonare”, poi mi giravo a guardare lo stemma col leone rampante sulla guglia del palazzo dei de Gennaro e a contare le sfere della corona nobiliare; ma se scendeva il nero alano dei signori de Gennaro saltavo dalla colonna e trovavo riparo nella corte del palazzo dei Magliano. Il palazzo era noto e frequentatissimo anche perchè vi era l’ufficio del medico Bucci, l’ala destra era riservata alla famiglia Magliano, l’altra era abitata da altre due famiglie. Nei miei ricordi di bambino la signora Anna Magliano, cordiale ed elegante con la sua immancabile sigaretta e la figlia Marina, anche lei molto affabile con tutti noi residenti e che spesso rivedo volentieri a Larino.

Prima degli ultimi eventi sismici, l’ampio cortile nel mese di maggio ospitava due o tre carri, le donne li addobbavano con atavica perizia tecnica e U Chian da Madonn, nei giorni della festa del Santo Patrono si trasformava con le mucche, addette al traino dei carri, in un paesaggio bucolico, con tanto di fieno, il forte odore di bestiame e quell’acre odore di deiezioni bovine che invadeva tutta Larino; ma i cittadini più anziani e pronti alla risposta per i forestieri definiscono la carrese come la festa delle cinque C…..e una di queste è senz’altro vistosa e immancabile a San Pardo (le altre le tengo gelosamente per me).

I proprietari del palazzo appartengono a una nobile famiglia, in realtà originaria di San Giuliano di Puglia, dove possedevano un palazzo baronale, nel 1741 si trasferirono a Montorio nei Frentani (a quell’epoca appartenente all’Alta Capitanata), e nei pressi della porta medievale del borgo edificarono il loro palazzo, inserendosi in quella comunità che, a quei tempi, contava diverse famiglie notabili per le loro proprietà e grado di istruzione.

Infine agli inizi dell’Ottocento i Magliano con Giandomenico si stabilirono nella Città Frentana. Il barone era nato a Montorio nel 1786 da Pasquale e Antonietta Palma di Larino, sposò Maria Michela Benevento e nominato Commissario a Larino per l’impianto del catasto vi si trasferì con la famiglia.

Nel 1822 è Ricevitore distrettuale di Larino e Conciliatore nella città natale, inoltre egli scrive vari saggi sull’antica Larino e con decreto reale ricopre la carica di Socio Corrispondente della Reale Accademia Ercolanense di Archeologia. Diversi furono i suoi contatti con gli studiosi di storia antica e di epigrafia latina, tra questi Lord Fox e il premiato col Nobel nel 1902 Theodor Mommsen, che fu anche suo ospite nel palazzo di Larino per una ricognizione e la prima stesura delle Inscriptiones Regni Neapolitani Latinae e del Corpus Inscriptionum Latinarum.

In particolare però, il barone, si dedicò alla stesura delle “Memorie storiche di Larino” che non portò a termine, ma che fu completata da Alberto Magliano (1846-1928) con titolo “Larino. Considerazioni storiche sulla Città di Larino – Manoscritti del barone Giandomenico Magliano, completati, annotati e pubblicati da suo nipote Alberto Magliano – “.

Negli ultimi anni della sua vita Giandomenico, per motivi di famiglia e di salute si trasferisce definitivamente a Napoli dove muore nel 1856.

Il nipote Alberto nasce a Larino nell’aprile del 1846 da Luigi e Angiolina Perone Pacifico, studia a Napoli al Collegio dei Cinesi ma poi sceglie l’Accademia Militare di Torino e, appena ventenne, partecipa, come sottotenente di artiglieria alla Terza Guerra d’Indipendenza, resta in servizio nell’esercito fino al grado di Maggiore di artiglieria e viene insignito della medaglia al valor militare. Sposato con Anna Magliano , dopo un duro lavoro di studi sulle fortificazioni di La Spezia e La Maddalena, contrae una grave infermità agli occhi che lo costringe a tornare a Larino. Malgrado il suo stato di salute si dedica alla ricerca storica e pubblica (completandoli) i manoscritti del nonno Giandomenico nel 1895 presso la Tipografia Colitti di Campobasso, un volume che è stato definito da alcuni storici del tempo (Ettore Pais, Nunzio Faraglia e Giacomo Boni) un capolavoro di storia locale.

Nel 1898 viene nominato Regio Ispettore Onorario ai Monumenti e Scavi, ma si dedica altresì alla politica cittadina, è sindaco di Larino per ben due volte, presidente dell’Ospedale Vietri per venticinque anni, crea un Asilo Infantile, fonda la Biblioteca Comunale “A. Novelli” , promuove tante altre iniziative sociali e culturali, tra queste, in veste di sindaco, da l’incarico all’ing. Enrico Vetta di redigere un piano regolatore per la città.

Nel 1925 pubblica presso la Tipografia Morrone di Larino i suoi “Brevi Cenni storici sulla Città di Larino”, seguiranno altre pubblicazioni minori fino alla sua morte nel 1928. La Città di Larino per i suoi innumerevoli meriti gli ha intitolato la Scuola Media Statale e una strada.

La figura meno nota della famiglia Magliano è Francesco, uomo erudito e noto giurista che ricoprì prestigiosi incarichi di governo nel decennio francese e, in seguito, con i Borboni ritornati dal loro esilio. Nacque a Montorio nei Frentani il 9 febbraio del 1764 da Giuseppe Antonio e Rosa Salottolo, di antica famiglia intestataria di diritti feudali. La sua formazione si deve a valenti maestri quali l’arciprete Beniamino Pinto per gli studi classici-letterari (un sacerdote turbolento dalle idee illuministiche, che nel 1799 sarà condannato per “aver predicato in favore della Repubblica”) e all’avvocato G.M. Montanaro per il diritto civile e canonico.

Appena diciottenne consegue il dottorato in diritto civile e canonico a Napoli dove fu condotto dallo stesso Pinto, così Francesco s’introduce nell’alta società napoletana e in particolare nell’ambiente forense ottenendo favore e protezione dal marchese Cito, del Sacro Regio Consiglio, che intuisce subito i grandi talenti del giovane molisano. Aderisce al gruppo dei riformatori seguaci di G. Filangieri, ha rapporti di amicizia con personaggi come M. Pagano, D. Cirillo, D. Tommasi , e viene nominato, durante il periodo della Repubblica, membro della Commissione legislativa, da cui poi si distaccherà considerando l’andamento poco realistico dei lavori. Francesco col ritorno di Ferdinando IV di Borbone non subì alcuna conseguenza negativa, continuò ad affermarsi come avvocato del ceto nobiliare, dedicandosi anche a studi giuridici più in tema col clima della rivoluzione.

Nel 1806 con la conquista del Regno da parte di Giuseppe Bonaparte, lo stesso chiese alla nobiltà napoletana di voler conoscere colui che fra gli avvocati più si distingueva per il suo sapere, per la sua probità e onestà e fu da essa unanimamente risposto che questi era don Francesco Magliano. Inoltre fu insignito del titolo di cavaliere delle Due Sicilie e infine, per nomina regia, fece parte, in qualità di consigliere, della Gran Corte di Cassazione nonostante appartenesse all’ordine degli avvocati.

Con Giacchino Murat, a seguito della codificazione napoleonica “fu affidata al Magliano la cura di esaminare tutti coloro che aspiravano alle cariche di Magistrati ed a seconda della loro abilità venivano da lui sistemati in nomina di Cancellieri circondariali e di Giudici di Circondario o di Tribunale” (da “Gli uomini illustri di Montorio” di Guido Vincelli). Con quest’incarico il Magliano risanò l’apparato giudiziario, dedito al clientelismo e parassitismo, e Murat nel 1815 gli conferì il titolo di barone.

Revocata la Costituzione da parte di Ferdinando I, il Magliano si allontanò dalla politica e riprese gli studi pubblicando opere che sono da considerarsi fondamentali per la conoscenza pratica della nuova legislazione. Infine il Magliano prese le distanze da un mondo che non riconosceva più consono ai suoi principi riformatori, si spostò a Roma in occasione del giubileo del 1825, poi soggiornò a Firenze, tornò di nuovo a Roma dove era molto ammirato da prelati e cardinali che lo consultavano.

Riassumendo il barone Francesco Magliano è stato un profondo erudito, ha ricoperto incarichi prestigiosi di governo nel decennio francese e anche con i Borboni, ha scritto diverse e apprezzate opere giuridiche, ma anche un’opera titolata “Considerazioni sulla natura dell’uomo”, permeata di filosofia, teologia e morale.
Era nelle sue intenzioni che l’opera suddetta, pubblicata a Napoli nel 1824, dovesse rappresentare il suo testamento di uomo e di studioso, ma le cose andarono diversamente.

La riscoperta della figura del barone Francesco va considerata nel contesto di un rinnovato interesse per la storia “minore” del Meridione, fatta di un numero considerevole di personaggi che potrebbero apparire poco rappresentativi, ma ugualmente importanti per la ricostruzione della storia ideale del Mezzogiorno d’Italia (si ricordano i recenti studi in merito da parte di Francesco De Carolis, Pier Luigi Rovito e G. Vincelli).

Nelle “Considerazioni sulla natura dell’uomo” il Magliano riprende molte idee proprie del suo periodo, in particolare di Rousseau, Montesquie e Voltaire, secondo lui non vi era incompatibilità tra religione cristiana e pensiero moderno, ma egli va oltre e vede gli effetti devastanti dell’Illuminismo, di cui critica il materialismo, il panteismo, l’antispiritualismo come conseguenze del venir meno della interpretazione cristiana dell’uomo. Come credente, voleva ripristinare il valore della religione, molto ridimensionato, se non negato negli anni turbolenti della Rivoluzione Francese. Il programma del Magliano, in merito a questa sua opera-testamento, è molto vasto, egli parte dal mondo giuridico fino a comprendere altri campi del sapere umano, come quello filosofico e teologico. Il barone è cosciente che la cultura europea ha le radici più profonde nell’eredità cristiana, e negarle, per seguire le mode del tempo, è impossibile. Tuttavia il confronto si rende necessario con le nuove correnti di pensiero (e tra questi l’Illuminismo) che esprimono idee diverse sull’uomo, sulla società e su Dio.

Nell’opera egli analizza la peculiarità morale dell’uomo e scrive: E’ proprietà dell’animo umano il dovere di virtuosamente operare, senza cui non si adempiono le funzioni proprie di uomo. E sulla polisemia del termine speranza scrive: vi ha chi novera la speranza tra i beni della vita, e chi fra’ mali. Esiodo finge risieder la speranza, come l’ultimo de’ mali, nel fondo del vaso di Pandora; e Platone, o piuttosto Aristotele….chiama la speranza sogno de’ veglianti…. All’opposto il Graziano uomo di corte afferma che la speranza fa vivere, e la sazietà del piacere rende noiosa la vita;….Ma a giudicare di essere la speranza un bene, basta sol riflettere che il contrario della speranza è la disperazione…

Egli ci ricorda che molti filosofi sostennero la tesi che il saggio non spera, perché egli sa che la speranza può essere legata alla nostra immaginazione, alle illusioni che non considerano gli ostacoli che la ragione indica o che potrebbe scorgere con chiarezza. Ma in tempi difficili, come riprende dagli scritti del Filangieri e di Giambattista Vico, la speranza non deve venir meno, intesa come una forza che sostiene la capacità di progettare, di portare innanzi una visione politica, economica e giuridica più alta e improntata alla giustizia.
E

considerando il tema (oggi molto attuale) della libertà individuale secondo il Magliano il punto di riferimento, un’affermazione questa che potrebbe sorprendere detta da un giurista, non è costituito né dalla società, né dalle istituzioni, ma dall’uomo e dalla sua “libertà di operare”, sta a lui schierarsi, scegliere di combattere la sua “natura…viziata e inferma”.

Ma per il barone Francesco l’idea di libertà era molto più complessa, andava oltre, e in un brano del libro scrive: E’ perfettamente libero colui che si lascia persuadere, né isforza chi s’insinua nel cuore altrui, ed illumina, eccita, ed aiuta nell’opera.

Concludendo il nostro giurista-filosofo fu tra quegli “uomini di marmo” come lo definì il caro amico estinto don Guido Vincelli caduti nell’oblio. In un ritratto ad olio del Camuccini nel palazzo di Larino databile al 1830 appare ormai vecchio, con un accenno di sorriso e lo sguardo distaccato di chi, negli ultimi anni di vita, ripensava con serenità alla propria parabola esistenziale.

Le cronache di famiglia tramandano che il ritorno a Napoli nel 1832 fosse quello di curare con le acque di Castellamare una grave forma di enterite, ma è possibile che quel suo ritorno fosse dettato da un sentimento di nostalgia e di speranza di essere ancora utile alla sua patria, ma non ebbe il tempo perché morì in una terribile epidemia di colera il 20 giugno del 1837.

La sorte volle, e purtroppo accadeva in quei drammatici eventi, che il suo cadavere fu gettato in una fossa comune senza onori, nel completo oblio, misto e confuso con altri del popolo.

 A ricordo del caro amico don Guido