È tempo di guardare la Luna, non il McDonald’s

Un’altra cosa evidente – ma forse non troppo dato il tenore di molti commenti all’apertura del McDonald’s – è che il mercato è sano precisamente quando è animato dalla concorrenza. Come detto, il consumatore sceglie in libertà di scambiare le proprie scarse risorse con solo alcuni beni e servizi, lasciando sugli scaffali tutti gli altri. Il consumatore non lancia i dadi per operare questa scelta – e chi lo fa di solito fa una brutta fine finanziariamente – ma sceglie di premiare quei beni e servizi finali che hanno soddisfatto in maniera più efficiente i suoi bisogni. Una cultura economica che pretende di porre limiti (oltre quelli dettati dalla legalità) alla concorrenza per salvare delle imprese che, in presenza di alternative più adatte, non verrebbero premiate dai consumatori significa pretendere di redistribuire il rischio di impresa di pochi imprenditori sulla società civile in termini di costo-opportunità, e la cosa ha un peso enorme.

Infatti, avere più offerta permette in primo luogo al consumatore di avere più scelta, più modi per configurare i propri consumi e quindi per operare trades più convenienti. In parole più semplici significa che il consumatore ha più possibilità di spendere in maniera efficace i suoi soldi, e il vantaggio è tanto maggiore quanto più sono scarse le risorse di chi spende, per cui saranno le categorie più povere a beneficiarne maggiormente. In secondo luogo, l’agonismo economico fra soggetti diversi con gli stessi obiettivi comporta, nel tentativo di rendere i propri beni e servizi più appetibili di quelli dei competitors, l’innescarsi di processi virtuosi e, ancora una volta, totalmente a vantaggio dei consumatori. Ad esempio, uno dei modi più efficaci e scontati che hanno le aziende di farsi concorrenza è quello di abbassare i prezzi dei prodotti finali, con grande ed evidente beneficio delle nostre tasche. Ovviamente non basta soffiare per fare la bottiglia, così come per abbassare i prezzi non basta cancellare e riscrivere il menù. È qui che scatta la corsa all’efficientamento e alla standardizzazione dei processi produttivi, la corsa all’innovazione e all’aumento di produttività che porta le aziende ad essere più solide e a crescere di dimensione, aumentando il numero degli occupati e la loro efficienza. Insomma, come potrete intuire la questione non è di lana caprina – come si dice a Isernia – e i costi di non avere concorrenza sul lungo periodo azzoppano un paese intero, falcidiando le categorie più fragili economicamente e sottraendo artificialmente gli incentivi che spingerebbero le imprese a rendersi più produttive a vantaggio della società civile intera.

Certamente, anche l’economia di mercato sana e concorrenziale ha dei costi, concentrati in questo caso soprattutto sul breve termine e soprattutto a carico delle imprese e dei lavoratori la cui offerta non viene premiata poiché soddisfa in maniera peggiore la domanda. Il costo più gravoso è il fallimento, la chiusura. Ma, con tutto il rispetto per la sofferenza che può causare nell’immediato, anch’esso può essere letto in un’ottica di opportunità. Leggiamo da un rapporto ISTAT che “nel 2019 in Italia erano attive quasi 4,4 milioni di imprese non agricole, con 17,4 milioni di addetti. Oltre il 60% delle imprese aveva al più un solo addetto (in genere ditte individuali con il titolare lavoratore indipendente), e un ulteriore terzo della popolazione erano microimprese tra i 2 e i 9 addetti; questi due segmenti insieme occupavano circa 7,5 milioni di addetti. Le piccole imprese, tra i 10 e i 49 addetti erano quasi 200 mila e quelle medie e grandi 28mila, cioè meno dello 0,7%: queste ultime rappresentavano però più di un terzo dell’occupazione e oltre la metà del valore aggiunto prodotto.” 

Questi dati mostrano come le imprese in Italia tendono ad essere particolarmente più produttive quanto più sono grandi. Le imprese meno produttive e che quindi meno resisterebbero ad una sana concorrenza sono per lo più quelle più piccole, per tutta una serie di motivi. La riduzione della parte meno efficiente della popolazione di aziende micro andrebbe a sbloccare dei fattori produttivi che, con tutta probabilità, potrebbero trovare un migliore impiego in organizzazioni economiche più grandi a beneficio di loro stessi, dell’impresa che li ospita e della società. 

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Pasquale

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