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È tempo di guardare la Luna, non il McDonald’s

L’approfondimento/ Un’analisi economica ma non solo, da parte di un nostro lettore, delle prospettive legate all’apertura del fast food statunitense a Isernia


La notizia del momento è che Isernia avrà un punto McDonald’s. Difficile credere esista orecchio pentro a cui non ne sia arrivata almeno un’eco. D’altronde una novità del genere non avrebbe potuto che suscitare una reazione genericamente abbastanza sentita – di qualunque segno essa sia – nella società isernina. Per un ragazzo di Isernia andare al McDonald’s è sempre stato un evento straordinario. Nel senso etimologico, costituiva un’esperienza al di fuori di quelle poche esperibili nella vita quotidiana di un ragazzo isernino, non foss’altro che bisognava farsi svariate decine di chilometri per raggiungere il più vicino. In un senso un po’ più simbolico invece, significava mettere un piede nel progresso e immedesimarsi per un po’ nell’infanzia di ragazzi misteriosi, membri di società più dinamiche, più grandi, più aperte al mondo della nostra come quelle di Roma, Milano o Napoli. L’apertura del McDonald’s per molti di noi segna di sicuro un punto di svolta, uno strappo fra il presente e la nostra memoria che difficilmente lascia indifferenti. 

Ma il leitmotiv del chiacchiericcio isernino sul McDonald’s non è di certo di questo lieve tenore, o comunque non nella maggior parte dei casi. In un clima di crisi economica internazionale e di nervosismo politico a fior di pelle, il chiacchiericcio in questione non avrebbe potuto che assumere un pessimistico taglio interpretativo di tipo socio-economico. Un sintomo inevitabile del crescente disagio e della progressiva perdita di fiducia nel futuro che ci induce all’apprensione. Non è un caso che la maggior parte dei pareri espressi qui e là fra i bar e sui social media esprima, in una forma o nell’altra, grande preoccupazione per gli effetti (si ipotizza) sciagurati che l’apertura di un McDonald’s in territorio pentro potrebbe avere sul tessuto economico della città. Più precisamente, qualcuno ha deciso già di suonare le campane a lutto per le piccole e micro-imprese del settore – da anni oramai protagoniste nazionali di molti discorsi politici vuoti e accattoni – gridando all’assassinio premeditato.

Per quanto comprensibile la preoccupazione, per quanto comprensibile il senso di incertezza che staranno provando i piccoli imprenditori e i loro lavoratori dipendenti e che buona parte della società sembra empatizzare profondamente, un buon numero di reazioni oltrepassano a mio avviso un certo limite, che è precisamente il limite imposto dalla realtà. Un (in)discreto numero di voci, infatti, lamenta l’esistenza stessa di dinamiche che sono esattamente le dinamiche naturali della vita economica in generale, dell’economia di mercato e del contratto sociale che gli imprenditori stessi hanno stipulato con il resto della società civile quando hanno deciso di darsi all’impresa. Nel farlo, peraltro, non si rendono conto di star involontariamente tifando per quei meccanismi perversi che hanno contribuito a renderci un paese sempre meno economicamente solido.

Prima di proseguire però, permettetemi una precisazione quantomai dirimente. Queste reazioni non si levano soltanto dagli imprenditori e dai lavoratori direttamente interessati e quindi emotivamente coinvolti, ma sono distribuiti abbastanza uniformemente nel sentire comune, nella cultura economica cittadina, che è a sua volta perfettamente in linea con quella nazionale. Ed è solo e soltanto questo il motivo per cui ho deciso di tuffarmi nella questione scrivendo questo articolo, al costo di attirarmi addosso molte maldicenze. Non ce l’ho con nessuno, non mi viene nulla in tasca dalla sofferenza altrui. Anzi, personalmente mi dispiace se qualcuno forse dovrà affrontare un brutto periodo così come sono felice per chi troverà in questo cambiamento delle opportunità. L’oggetto della mia critica è semplicemente la cultura economica in generale che impera nel Paese. 

Fatta questa premessa, se ne deve fare un’altra, stavolta di natura diversa. Non è infatti possibile confronto serio senza che gli assunti sul quale si basa vengano definiti in maniera chiara, per cui il lettore mi perdonerà se passerò velocemente in rassegna alcune banalità.

L’imprenditore è sostanzialmente un individuo che prova ad arricchirsi e ad accrescere la soddisfazione personale tentando di indovinare, interpretare e soddisfare i bisogni di altri individui raggiungibili dalla sua attività. Consci di star semplificando, potremmo dire che questi bisogni sono la domanda, mentre l’offerta è quel che risulta dell’attività imprenditoriale. Il sistema economico si compone di questi due aspetti – domanda e offerta – e il mercato è virtualmente il loro punto di incontro. Il consumatore sceglierà di scambiare le proprie risorse economiche (sempre scarse rispetto ai bisogni esprimibili) con una manciata di prodotti e servizi scegliendo di rinunciare a tutti gli altri poiché soddisfano con meno efficacia i propri bisogni. 

Ora, essendo la domanda costituita (sempre semplificando) da preferenze soggettive e culturali e influenzata dal potere d’acquisto, non possiamo sperare rimanga sempre identica a sé stessa nel tempo, ovvero che scelga sempre gli stessi beni e servizi, sempre nella stessa quantità e con la stessa frequenza, per soddisfare i propri bisogni. Basterebbe disaggregare la domanda della società italiana del 2022 e confrontare la domanda della popolazione sessantenne con quella degli adolescenti per renderci conto di quanto la cultura la influenzi e di quanto anche pochi lustri possano modificare mediamente la domanda di una società. Queste condizioni di mutabilità si riflettono poi, come è ovvio, sull’offerta, la quale ha tutto l’interesse nel rincorre la domanda nei limiti del possibile, pena l’obsolescenza.

Ma non è soltanto la domanda ad influenzare l’offerta, è vero anche il contrario. È possibile, infatti, che al diversificarsi dell’offerta tenendo invariata la domanda, quest’ultima finisca comunque per assumere un nuovo volto. Come è possibile se la premessa era appunto quella che i bisogni rimanessero tali ed anche il potere d’acquisto? Semplificando, al variare dell’offerta è possibile che vari la maniera in cui i consumatori soddisfano o interpretano quegli stessi bisogni, andando a rimodularsi di volta in volta sempre alla ricerca del miglior equilibrio possibile fra risorse scarse e appagamento.

Le conseguenze logiche di tutto ciò sono varie, ma una cosa che di certo possiamo asserire è che il mestiere dell’imprenditore è soggetto strutturalmente all’incertezza. Questa è dovuta in parte alle fluttuazioni della domanda e dell’offerta come abbiamo visto, ma anche banalmente al fatto che ogni slancio imprenditoriale si basa certamente su osservazioni, analisi di mercato e altri tentativi di limare l’incertezza, ma nessuno ha la sfera di cristallo per immaginare cosa potrebbe funzionare e cosa no; quindi, rimane de facto un margine di scommessa ineludibile. È il famigerato rischio d’impresa, e senza di esso l’imprenditoria non sarebbe imprenditoria e l’impresa non sarebbe tale etimologicamente. Non si spiegano quindi tutte quelle reazioni di chi, cadendo dal pero, adesso si è reso conto che quello dell’imprenditore non è un posto fisso. Ciò ovviamente non è un invito al puro cinismo, semplicemente nel dispiacere non si faccia finta di non sapere cos’è l’imprenditoria e non si pretenda l’impossibile, poiché in questa maniera si finisce per non aiutare nessuno. Anzi, si rischia di peggiorare la situazione creando false aspettative, che poi si traducono in facili appigli elettorali per qualche malintenzionato demagogo.

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