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Altro passo in avanti verso il vaccino anti-Covid, Burioni: “In 66 giorni fatto lavoro di anni”

Per vaccinare il paziente sarà possibile iniettare direttamente materiale genetico, usato dalle cellule imane per sintetizzare la proteina del virus contro la quale si vuole che il paziente produca anticorpi. Il commento del virologo sulla sua pagina facebook: “E’ la dimostrazione che la scienza va più veloce della nostra fantasia”


Il noto virologo Roberto Burioni ha firmato sul suo sito un post in cui commenta l’esito di uno studio preliminare su un possibile vaccino anti Covid, appena pubblicato sul New England Journal of Medicine

Lo commenta con entusiasmo: “Quello che in generale richiedeva più o meno sei-otto anni è stato fatto in 66 giorni. Questo è il tempo che è trascorso dalla definizione della sequenza del nuovo virus alla prima somministrazione del vaccino a un paziente.  Se qualcuno mi avesse chiesto un anno fa: “È possibile fare una cosa del genere?”, io avrei risposto certamente no. Per fortuna la scienza va più veloce della nostra fantasia”.

“Questo vaccino – spiega Burioni – segue una strada radicalmente innovativa: infatti per vaccinare il paziente si inietta direttamente materiale genetico, che viene usato dalle cellule umane per sintetizzare la proteina del virus contro la quale si vuole che il paziente produca anticorpi. In altre parole, con i vaccini più tradizionali noi produciamo la proteina del virus in laboratorio, la purifichiamo e poi la iniettiamo nel paziente, che se tutto va bene produce anticorpi contro di essa. In questo caso invece la “macchina” che produce la proteina è il paziente stesso. I vantaggi sono la velocità di sviluppo del vaccino e la facilità (ed economicità) di produzione; lo svantaggio è che non si sa se funziona”.

Da questo punto di vista, però, i primi dati sono positivi, anche se solo preliminari e limitati a 45 pazienti, giovani e in ottima salute: è stato usato materiale genetico per far produrre alle loro cellule la proteina S, quella che permette al coronavirus di infettare le cellule stesse, e “tutti i partecipanti – aggiunge Burioni – hanno sviluppato un titolo alto di anticorpi diretti contro la proteina S e, soprattutto, in grado di neutralizzare Sars-CoV-2”.

Ora la domanda chiave è se gli anticorpi neutralizzanti proteggeranno i vaccinati dalla malattia, e per la risposta bisogna aspettare naturalmente ulteriori test. C’è poi l’aspetto della sicurezza: “il paziente che ha ricevuto la dose più alta ha avuto la febbre fa 39.6, il che non è ‘niente di tragico’, ma – conclude Roberto Burioni – indica che bisogna studiare bene come dosare il vaccino perché abbia il rapporto protezione/sicurezza più alto possibile. In ogni caso tutto porta ad andare avanti nello sviluppo”.

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